PRIMA PAGINA – Ci (af)fidiamo?
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con i vicepresidenti Antonio Tajani e Matteo Salvini (in videocollegamento), i ministri competenti (Giancarlo Giorgetti, Adolfo Urso, Tommaso Foti, Francesco Lollobrigida) e i sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari, incontra le categorie economiche sulla questione dei dazi nella Sala Verde di Palazzo Chigi, Roma, 8 aprile 2025. Gli incontri sono iniziati con i rappresentanti di Confindustria (presente il presidente Emanuele Orsini), Ice (Matteo Zoppas) e Cnmi (Camera Nazionale Moda Italiana, rappresentata dal presidente Carlo Capasa). ANSA/FILIPPO ATTILI/US PALAZZO CHIGI +++ NPK +++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY +++
Giorgia Meloni volerà a Washington il 17 aprile, giovedì prossimo, per confrontarsi con Donald Trump sui dazi. “Sono 70 i Paesi che hanno chiesto un incontro”, Scott Bessent ha aggiornato il conto. Intanto, ieri, la premier ha incontrato le categorie produttive a Palazzo Chigi. Al termine del summit, Meloni ha promesso interventi per 25 miliardi a sostegno delle imprese e ha chiesto di non lasciarsi sopraffare dal panico poiché la paura è la nemica che può davvero causare danni, quelli sì irreversibili, all’economia. Senza scomodare il solito luogo comune sul (presunto) vero significato di crisi, per la premier è giunta l’ora che l’Europa si dia una sveglia. E che lo faccia sul serio. “L’Ue si è assestata su una reazione che io considero propedeutica ad una trattativa non escalatoria. Lo dico perché se invece la posizione fosse stata quella di una escalation, l’Italia non l’avrebbe supportata”. E non basta: “Al netto della trattativa – ha spiegato – credo che questo nuovo choc che colpisce l’Europa, dopo la pandemia e la guerra in Ucraina ancora in corso, possa essere anche un’occasione per affrontare con coraggio alcune questioni che sono diventate ineludibili. Visto che gli Stati Uniti impongono dei dazi, approfittiamo per togliere, qui, dazi che ci siamo autoimposti. Penso alle regole ideologiche e non condivisibili del Green Deal, che stanno avendo un impatto pesantissimo sul nostro tessuto produttivo e industriale, a partire dal settore automotive. Se queste norme non erano sostenibili ieri, non lo sono a maggior ragione oggi”. La posizione di Meloni è netta: “Se l’Europa pensa di sopravvivere a questa fase continuando a far finta di niente o a pretendere di iper-regolamentare tutto, semplicemente non sopravviverà e abbiamo un problema più grande dei dazi americani”. Ecco, appunto. La situazione, chiaramente è in evoluzione. Meloni e Trump, sui dazi, si incontreranno tra poco più di una settimana. Per non sbagliare, nel Def che finirà domani al vaglio del consiglio dei ministri, non si fa riferimento alcuno alla vicenda dazi e ci si limita a limare allo 0,6 la previsione di crescita.
Tutti vogliono trattare. Le imprese, le organizzazioni. E pure l’Ue. Che, però, ha un problema abbastanza grave: quello di salvare la faccia. Il bellicoso portavoce al Commercio, Olof Gill, ha ammesso che l’obiettivo di Bruxelles sta nei negoziati con l’America ma avvisa Washington: “Il grande bazooka è sul tavolo ma speriamo di non doverlo usare”. L’ultimo a usarlo è stato Mario Draghi ma quella è, evidentemente, un’altra storia. La notizia più importante che arriva da Bruxelles, però, è un’altra. Ue e Cina son tornate a parlarsi dopo il pasticciaccio brutto dei dazi sull’auto (fuori tempo massimo…) di Bruxelles. Ursula ha chiamato Pechino e le ha risposto Li Qiang, primo ministro del Dragone. Una finezza diplomatica: avrebbe dovuto alzare la cornetta Xi, a rigor di logica. Ma va bene pure così. Son rimasti d’accordo che in estate ci si incontrerà, probabilmente a luglio e non si sa ancora dove, per verificare se c’è la possibilità di tornare a fare affari insieme. Non come ai tempi di Angela Merkel, sia chiaro. Un’apertura che pare strumentale: giusto per far ingelosire The Don. Che, da parte sua, tira dritto rassicurato, se non altro, dal fatto che l’Ue ha già promesso che acquisterà materie prime energetiche proprio dagli Stati Uniti, così come da lui richiesto. È una sfida per il primato globale. Il Dragone, a differenza degli altri, ha risorse ma soprattutto idee. Quella più ambiziosa riguarda l’obiettivo di insidiare il primato del dollaro e il suo ruolo di valuta mondiale di riserva e al sistema di pagamenti Swift. La Banca centrale di Pechino ha annunciato la volontà di estendere a dieci Paesi dell’area Asean, più altri sei del Medio Oriente, il suo sistema di pagamenti basati sullo yuan digitale. La mossa del Dragone sulla scacchiera che più conta. Mossa a cui l’America ha replicato a strettissimo giro, con tutta la forza economica e politica: dazi, da oggi, al 104% su tutto ciò che arriva dalla Cina. Ufficialmente perché Pechino non ha revocato i suoi controdazi. Punirne uno per educare gli altri che, intanto, si distraggono col dissing che coinvolge alcuni degli esponenti del trumpismo più in vista. Come Peter Navarro, consulente economico “falco” dei dazi e Elon Musk, nell’inconsueta veste di colomba, almeno per quanto riguarda il libero scambio. Il primo gli rinfaccia la dipendenza dalle supply chain straniere di Tesla (e, velatamente, i suoi interessi in Cina). Il secondo gli dà dell’idiota “più stupido di un sacco di mattoni”. Intanto Wall Street vola e apre con aumenti superiori al 3%. Dopo giorni di apocalisse finanziaria, è tornato il sereno. Un po’ ovunque, anche a Milano dove la Borsa ha guadagnato il 2,45% mentre lo spread ha ricominciato la sua fase di rientro attestandosi a 122 punti base. Un altro segnale, da non sottovalutare, sta nel deprezzamento dell’oro che scende sotto i 3mila dollari l’oncia. In attesa di ciò che potrà (ancora) accadere prima del viaggio di Meloni a Washington da Trump per i dazi “zero per zero”.
Torna alle notizie in home