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Le mamme lavoratrici decidono di dimettersi entro i primi tre anni di vita dei loro figli. I dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro fotografano la realtà, al di là dei proclami, delle prese di coscienza, degli alti peana che si levano. A parole, tutti sono convinti della necessità di dare alle madri una chance, nei fatti, invece, per chi decide di avere un figlio è come rinunciare ad avere una propria carriera. I numerisono tremendi. Nel 2022 si sono registrate 61.391 dimissioni volontarie di mamme lavoratrici. In aumento, rispetto al 2021, addirittura del 17 per cento. Ma non basta. Il 63 per cento di queste donne (poco più di 44mila) che hanno scelto di rinunciare al lavoro, infatti, hanno motivato la loro decisione adducendo le difficoltà, evidentemente insormontabili, a far conciliare le necessità della famiglia e quelle dell’impiego. Sono poche, pochissime, le signore che se ne vanno perché hanno trovato altrove occasioni migliori. Si tratta di meno di un quarto del totale (24%). Questa, per capirsi, è la ragione principale che motiva quasi l’80 per cento (per la precisione il 78,9%) delle dimissioni rassegnate dagli uomini. Il 7,15% dei maschi lascia, infine, il lavoro per curarsi.
Il maggior numero di dimissioni insiste tra le lavoratrici che si trovano nella fascia d’età tra i 29 e i 44 anni. Testimoniando, peraltro, che si sceglie sempre più tardi di fare figli. Addirittura il 58% delle donne dimissionarie ha un solo figlio. In pratica, si lascia appena si diventa madri. C’è un terzo delle donne che tenta di resistere più che può. Il 32,5% delle donne madri di due figli ha lasciato il lavoro. Mentre è di gran lunga inferiore la quota di chi ne ha più di due (7,5%). L’Ispettorato nazionale del lavoro certifica, dunque, che appena si diventa genitori si rischia di dover scegliere tra lavoro e famiglia. E questa è solo l’ultima vergogna nel Paese che ha le retribuzioni che sono cresciute meno di tutti, in Europa (e nell’area Ocse). In Italia, essere donna e madre significa, per troppe di loro, tornarsene a casa e rinunciare per sempre ai sogni di carriera.
Ma ciò comporta un’altra conseguenza. Anzi, uno stallo. La conseguenza è che si preferisce lavorare anziché far figli. Lo stallo sta nel fatto che il Paese, come buona parte dell’Occidente, vive una fase paurosa di declino demografico, la denatalità rischia di mandare a carte quarantotto il sistema Paese. Il governo s’è assunta la responsabilità di porre un freno a questo trend. Ma non si può cambiare solo a colpi di assegni familiari. Ci sono tante esigenze che costringono le donne a rinunciare al lavoro. Mancano, soprattutto al Sud, gli asili nido per esempio. Non c’è un welfare che sia all’altezza delle necessità delle mamme lavoratrici, in troppe aree del Paese. Le famiglie, poi, devono far quadrare i conti. E molte mamme, costrette a dover lavorare per riuscire a pagare la retta dell’asilo e poco più, preferiscono rinunciare. L’Italia, così, non va da nessuna parte.
Svimez, che l’altro giorno ha pubblicato il rapporto 2023, ha riferito che “il potenziamento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno è cruciale per contrastare il declino demografico”. Solo il Sud, stando ai dati, perderà ben otto milioni di residenti entro il 2080. Ma il mondo del lavoro, da quest’orecchio, non ci sente. E i numeri sono chiarissimi: “La carenza di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, specialmente nella prima infanzia, penalizza le donne nel mondo lavorativo”, assicura Svimez secondo cui “una donna single nel Mezzogiorno ha un tasso di occupazione del 52,3%, nel caso di donna con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni scende al 41,5% per poi crollare al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni (65,1% al Centro-Nord), la metà rispetto ai padri (82,1%)”.