Ma non sia “monoarchia”
GIORGIA MELONI PREMIER
di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO
Un processo costituente si valuta in base al rapporto tra fini e mezzi. Quali sono i fini dichiarati da Giorgia Meloni? La governabilità e strutture di governo più efficienti. Come ha detto lei stessa: “Vogliamo consegnare all’Italia una riforma che porti a una democrazia più matura, forte ed efficace”. Ma quali sono i contenuti di questa riforma? Al momento siamo ancora sul vago, non solo da parte della maggioranza ma anche dell’opposizione. Dopo l’incontro con i rappresentati dell’opposizione ha dichiarato che, a questo punto, “l’ipotesi dell’elezione diretta del premier è sicuramente quella che incontra una minore opposizione”, anche se non esclude altre due possibilità: il presidenzialismo secco o il semipresidenzialismo alla francese. Si tratta di due sistemi diversi, ma che hanno in comune l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. In campo c’è anche, appunto, l’ipotesi del cosiddetto “premierato”, ovvero l’elezione diretta del capo del governo. Ma il fatto che in Israele, l’unico Paese occidentale a realizzarlo, questo progetto sia stato cassato dopo soli tre anni dovrebbe suggerire una certa prudenza in merito alla sua eventuale adozione. È facile immaginare, perciò, che la discussione verterà sulla scelta di un sistema che fa perno sul capo dello Stato, e in questo sistema il premier, il capo del governo, o non esiste oppure è una semplice controfigura del Presidente.
Ora, l’obiettivo di Meloni sembra essere quello di procedere a una riforma costituzionale in grado di conferire stabilità agli esecutivi e di creare le condizioni per un’azione di governo più efficace di quella dimostrata dagli instabili e frammentati governi italiani che si sono succeduti a partire dal secondo dopoguerra. Se però questo obiettivo nasconde la convinzione che la concentrazione delle decisioni nelle mani del Presidente serva a rendere marginale il ruolo del Parlamento, ad accentuare la tendenza a personalizzare la politica e a trasformare i partiti in semplici piattaforme a sostegno del leader di turno, è difficile che la riscrittura della carta costituzionale in senso presidenzialista incontri i favori dell’opposizione. Se invece l’obiettivo è di trasformare e migliorare il funzionamento e il rendimento del sistema politico, allora, probabilmente, il semipresidenzialismo alla francese potrebbe costituire un possibile terreno di dialogo anche nei confronti di chi teme che il presidenzialismo all’americana, in assenza di istituzioni contromaggioritarie sufficientemente solide, possa avere conseguenze controproducenti. Negli Stati Uniti, la grande concentrazione di potere nelle mani del capo dell’esecutivo non si è tradotta in una crisi istituzionale proprio perché gli anticorpi liberali presenti nel sistema sono stati in grado di porre un argine ai comportamenti irresponsabili di Donald Trump.
Il sistema francese, infatti, è ispirato al principio della diarchia e non della mono-archia, nel senso che il problema di una maggioranza parlamentare contraria al Presidente, che negli Stati Uniti lo rende un’“anatra zoppa”, è risolto dal fatto che l’esercizio reale del potere passa dal capo dello Stato al capo del governo. Il semipresidenzialismo, che non è un parlamentarismo potenziato né un presidenzialismo dimezzato, è perciò molto più flessibile del presidenzialismo secco, che può portare alla quasi paralisi del sistema politico nella eventualità di una maggioranza parlamentare contraria all’orientamento politico di chi siede alla Casa Bianca. Invece, anche quando l’inquilino dell’Eliseo si vede costretto a praticare la cosiddetta “coabitazione”, si trova di fronte a un Primo ministro che è tale perché dispone di una maggioranza parlamentare e che è, perciò, comunque in grado di governare. Per cui, persino in un regime di coabitazione, il Paese dispone di un esecutivo pienamente legittimo e perfettamente in grado di esercitare le proprie funzioni. In entrambe le circostanze, la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo è maggiore di quella riscontrabile in un regime di tipo parlamentare, e ciò assicura le condizioni suscettibili di porre rimedio alla debolezza e all’instabilità che hanno afflitto la vita politica italiana degli ultimi decenni. Ma perché il modello semipresidenziale della Quinta Repubblica francese – di cui si è parlato in anni che sembrano remoti, a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema (1997-1998) – possa funzionare, dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione del sistema elettorale a doppio turno, che incoraggia i partiti a creare delle coalizioni e a scegliere i candidati che si collocano non distanti dal centro della specifica coalizione, dal momento che corrono meno rischi di perdere elettori a sinistra o a destra.
Si diceva all’inizio che un processo costituente si valuta in base al rapporto tra fini e mezzi. Dei fini si è detto. E dei mezzi? A questo proposito, va osservato che Meloni ha voluto incontrare le minoranze per discutere delle regole comuni. La cattiva notizia è che ha dichiarato di volerle riscrivere, in caso di mancato accordo, anche senza il loro contributo. “Sia chiaro”, ha sostenuto, “che non mi farò bloccare dai veti”. Una dichiarazione non proprio rassicurante, dal momento che la teoria della democrazia liberale si basa sulla tesi che il potere della maggioranza deve essere limitato – a meno di non scadere in una mono-archia di cui il nostro Paese non ha certo bisogno.
Ora, l’obiettivo di Meloni sembra essere quello di procedere a una riforma costituzionale in grado di conferire stabilità agli esecutivi e di creare le condizioni per un’azione di governo più efficace di quella dimostrata dagli instabili e frammentati governi italiani che si sono succeduti a partire dal secondo dopoguerra. Se però questo obiettivo nasconde la convinzione che la concentrazione delle decisioni nelle mani del Presidente serva a rendere marginale il ruolo del Parlamento, ad accentuare la tendenza a personalizzare la politica e a trasformare i partiti in semplici piattaforme a sostegno del leader di turno, è difficile che la riscrittura della carta costituzionale in senso presidenzialista incontri i favori dell’opposizione. Se invece l’obiettivo è di trasformare e migliorare il funzionamento e il rendimento del sistema politico, allora, probabilmente, il semipresidenzialismo alla francese potrebbe costituire un possibile terreno di dialogo anche nei confronti di chi teme che il presidenzialismo all’americana, in assenza di istituzioni contromaggioritarie sufficientemente solide, possa avere conseguenze controproducenti. Negli Stati Uniti, la grande concentrazione di potere nelle mani del capo dell’esecutivo non si è tradotta in una crisi istituzionale proprio perché gli anticorpi liberali presenti nel sistema sono stati in grado di porre un argine ai comportamenti irresponsabili di Donald Trump.
Il sistema francese, infatti, è ispirato al principio della diarchia e non della mono-archia, nel senso che il problema di una maggioranza parlamentare contraria al Presidente, che negli Stati Uniti lo rende un’“anatra zoppa”, è risolto dal fatto che l’esercizio reale del potere passa dal capo dello Stato al capo del governo. Il semipresidenzialismo, che non è un parlamentarismo potenziato né un presidenzialismo dimezzato, è perciò molto più flessibile del presidenzialismo secco, che può portare alla quasi paralisi del sistema politico nella eventualità di una maggioranza parlamentare contraria all’orientamento politico di chi siede alla Casa Bianca. Invece, anche quando l’inquilino dell’Eliseo si vede costretto a praticare la cosiddetta “coabitazione”, si trova di fronte a un Primo ministro che è tale perché dispone di una maggioranza parlamentare e che è, perciò, comunque in grado di governare. Per cui, persino in un regime di coabitazione, il Paese dispone di un esecutivo pienamente legittimo e perfettamente in grado di esercitare le proprie funzioni. In entrambe le circostanze, la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo è maggiore di quella riscontrabile in un regime di tipo parlamentare, e ciò assicura le condizioni suscettibili di porre rimedio alla debolezza e all’instabilità che hanno afflitto la vita politica italiana degli ultimi decenni. Ma perché il modello semipresidenziale della Quinta Repubblica francese – di cui si è parlato in anni che sembrano remoti, a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema (1997-1998) – possa funzionare, dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione del sistema elettorale a doppio turno, che incoraggia i partiti a creare delle coalizioni e a scegliere i candidati che si collocano non distanti dal centro della specifica coalizione, dal momento che corrono meno rischi di perdere elettori a sinistra o a destra.
Si diceva all’inizio che un processo costituente si valuta in base al rapporto tra fini e mezzi. Dei fini si è detto. E dei mezzi? A questo proposito, va osservato che Meloni ha voluto incontrare le minoranze per discutere delle regole comuni. La cattiva notizia è che ha dichiarato di volerle riscrivere, in caso di mancato accordo, anche senza il loro contributo. “Sia chiaro”, ha sostenuto, “che non mi farò bloccare dai veti”. Una dichiarazione non proprio rassicurante, dal momento che la teoria della democrazia liberale si basa sulla tesi che il potere della maggioranza deve essere limitato – a meno di non scadere in una mono-archia di cui il nostro Paese non ha certo bisogno.
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