L’Ue deve cambiare e l’Italia rischia grosso
Si è sgretolato anche l’ultimo mito: la Ue non è irriformabile: non lo è, almeno, se lo dicono Francia e Germania. I Paesi fondatori. In realtà, in questo gruppetto privilegiato ci saremmo dentro anche noi. Ma si sa, l’Italietta ha altro a cui pensare. Prima ancora della riforma della governance e delle istituzioni Ue, Roma ha da vincere la battaglia decisiva, quella per il nuovo patto di stabilità. Parigi e Berlino, invece, si sono rese conto che così non va. Troppi Paesi, troppe teste e queste maledette maggioranze qualificate e decisioni da prendere all’unanimità che frenano la tempestività delle istituzioni Ue. Tanto deboli e irrilevanti che basta una scelta della Bce, anzi dieci di fila, per mandare kappaò intere economie nazionali.
Francia e Germania hanno proposto di riscrivere le regole Ue e, per voce del solito gruppo di “esperti indipendenti”, hanno presentato una serie di modifiche molto interessanti, soprattutto per loro. Vorrebbero che l’Unione europea si dotasse di fondi suoi, magari aumentando le dotazioni di bilancio. Preferirebbero che le decisioni fossero prese a maggioranza qualificata, il 60 per cento. Ma come piace a loro: non più un voto per testa, non il 60% dei Paesi membri ma della popolazione rappresentata. In pratica, i piccoli Stati finirebbero di fare la voce grossa e il pallino del gioco sarebbe direttamente nelle mani dei Paesi più popolosi. E, guarda caso, la Germania ha 84 milioni di abitanti, la Francia 68. In fondo, però, hanno ragione. Gli ultimi anni, dal Covid alla guerra, hanno svelato l’inconsistenza della burocrazia Ue, appesa alla fragilità di bizantinismi e di unanimità che hanno costretto i Paesi a mediare, fino al parossismo, davanti a crisi, come quella energetica, che, invece, di fronte al gas a 300 e più euro al metro cubo, volevano risposte rapide. Inoltre, Berlino e Parigi vorrebbero snellire la Commissione, che oggi è uno sterminato caravanserraglio di 27 membri, uno per ogni Paese membro. Infine, propongono di non aumentare il già rilevantissimo numero di eurodeputati (oggi sono 751, in pratica un esercito) anche a fronte dei nuovi ingressi nell’Unione. Eventuali, ça va sans dire.
Il fatto è che il vero messaggio che arriva dall’ambizioso paper è un “no” ai programmi di ampliamento dell’Ue. Almeno fino al 2030. Se ne facciano una ragione l’Albania, la Moldavia e soprattutto l’Ucraina. L’Europa non ha alcuna intenzione di allargarsi. Almeno per un (bel) po’. Non prima di aver rivisto la governance Ue che per Francia e Germania va profondamente rivista. Anche perché quello che sta accadendo in queste settimane è sotto gli occhi di tutti. Oltre ai migranti, l’Europa ha un problema serissimo con la Bce. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha detto, chiaramente, che per colpa dei nuovi aumenti dei tassi, l’Italia sarà costretta a sborsare altri 14 miliardi di euro solo per pagare gli interessi sul suo debito. Che ha raggiunto la cifra, mostruosa, di 2.859 miliardi. Soldi “tolti alla manovra”, lamenta il titolare del Mef. Che, giorno dopo giorno, vede la coperta accorciarsi sempre di più. Parigi e Berlino sanno che non possono permettersi un crac italiano. E, soprattutto la Germania, deve pensare seriamente ad allentare l’ideologia del rigore in vista del prossimo patto di stabilità. Il cammino è iniziato con l’Ecofin informale di venerdì scorso, a Santiago di Compostela, dovrebbe terminare a Natale. Dalle decisioni dipenderà non solo l’entità della finanziaria che il governo potrà mettere in campo in Italia ma il futuro stesso dell’economia europea. Roma vuole scomputare dalle cifre messe a bilancio le spese legate agli aiuti all’Ucraina e agli investimenti Pnrr. La battaglia è tutta qui. Ma le premesse non sembrano ottimali. “Per un paese come l’Italia che ha 80 miliardi al minimo, purtroppo in continuo aumento, di superbonus da pagare sul debito nei prossimi 3-4 anni, e spese importantissime di investimento, finanziate con i prestiti del Next generation Eu, che vanno sul bilancio e sono spese a tutti gli effetti, è matematicamente impossibile rispettare quella regola che in qualche modo si vorrebbe introdurre”, ha affermato Giorgetti. Che, però, resta ottimista: “Probabilmente riusciremo a trovare alla fine un punto intesa”. Nessuno vuole l’Italia in ginocchio. Oggi, nessuno se lo può permettere. Anche perché, in fondo, per Giorgetti i veri interlocutori sono altri. E non hanno certo il volto di Ursula von der Leyen: “A me fanno paura non le valutazioni della Commissione europea ma dei mercati che comprano il nostro debito pubblico. Tutte le mattine mi sveglio e ho un problema: devo vendere debito pubblico e devo essere accattivante per convincere la gente ad avere fiducia”. Questo, però, impone un’altra considerazione che suona come un messaggio diretto a Francia e Germania. “Anche il debito può essere usato come un’arma per fare la guerra a livello geopolitico, bisogna chiedersi chi ha in mano tutto questo debito pubblico in giro per il mondo, anche quello degli Stati Uniti. È una riflessione che non può limitarsi soltanto a dinamiche finanziarie e monetarie ma, inevitabilmente, deve portare delle considerazioni di carattere politico”.
Torna alle notizie in home