Cultura & Spettacolo

Lucia di Lammermoor e la disobbedienza romantica

di Redazione -


DI RICCARDO LENZI
Ma siamo sicuri che la “Lucia di Lammermoor” di Donizetti può esser ancora compresa dal pubblico contemporaneo? Una domanda che sorge spontanea alla nuova prima scaligera diretta da Riccardo Chailly, affiancato dalle due star canore Lisette Oropesa e Juan Diego Flórez (in replica fino al 5 maggio). Flaubert alla sua epoca di certo non avrebbe avuto dubbi, comprendendo perfettamente quanto un’intera generazione fosse legata al “dramma tragico” composto dal bergamasco. Non è infatti un caso se l’incontro fra Emma Bovary e Léon avviene al teatro di Rouen proprio mentre va in scena la “Lucia” in questione. Del resto, nell’Ottocento, il personaggio di una figlia che disobbedisce alla famiglia e impazzisce dopo aver ucciso il proprio amante, rappresentava un avvenimento per le donne che intendevano ribellarsi alle convenzioni sociali e un intrigante esempio di romantica disobbedienza alle istituzioni. Ma oggi? È pertanto inutile che il regista di questa messa in scena, Yannis Kokkos, al fine di “attualizzarla” come ha chiarito, l’abbia ambientata nel Novecento, invece che con i costumi nel sedicesimo secolo, come il libretto prescriveva. È quindi evidente che le ambiguità voluttuose di una Carmen intrigheranno maggiormente il pubblico giovanile dei nostri giorni. Per fortuna rimane un altro motivo a giustificare questa scrupolosa, filologica ripresa: la bellezza della musica, delle sue arie, alcune impreziosite dal reinnesto di battute che una tradizione infedele aveva soppresso. Per prima fu Maria Callas a donare nuova vita all’opera, dandoci una donna appassionata, resa pulsante da una teatralità drammaticissima, mettendo in secondo piano l’esibizione belcantista. La Callas applicò la formula, tipica dei tempi di Donizetti, del soprano drammatico d’agilità, che soppiantò la moda dei sopranini di coloritura che sorsero a frotte nei teatri, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Certo, di fronte a un simile paragone, e’ temeraria l’esibizione della Oropesa, quarantenne statunitense di origine cubana figlia di un’insegnante di canto, salita agli onori della cronaca per la pesantissima dieta che l’ha fatta dimagrire di 40 chili (anche in questo il mito callassiano si rinnova). Accorgimento che ha avuto un riflesso, oltre che sull’aspetto esteriore, sulla fisiologia del canto, aiutandola a tenere lunghi i fiati al momento dell’emissione, sul palcoscenico. E dandole agio anche nella serata donizettiana di esibire al massimo grado le sue notevoli qualità vocali: un bel timbro di soprano lirico arricchito dalla ottima dizione, con un fraseggio fascinoso e accortissimo nel centellinare con cura gli acuti, senza mai sforare il climax del buon gusto, che ha avuto agio di esibirsi nella fatidica scena della pazzia nella quale ha raggiunto, come auspicava Alberto Savinio, il “modello di autenticità”. La pazzia di Lucia è quindi garantita dal soffio più sottile, leggero, aereo che si possa dare. E il più gelido. Dove i gorgheggi, gli arpeggi, gli indugi, le smorzature di Lucia escono dalla bocca erompendo in aria come piccoli fiori, intrecciati con le note misteriose della glassarmonica. Un po’ imbolsito nella figura, per l’inevitabile trascorrere degli anni, è apparso l’altro protagonista, Juan Diego Flórez, che però ha dato sfoggio della sua bella voce dal timbro chiaro, leggermente nasale, con ampia estensione che raggiunge senza sforzo il re sopracuto e tecnica da virtuoso nell’appoggiare, controllare e slanciare il fiato, esibendo legati dalle ampie aperture melodiche e suoni morbidi e rotondi, anche nei virtuosistici passaggi di coloratura. Secondo buona routine le prove di Boris Pinkhasovich nel ruolo di Enrico e di Michele Pertusi in quello di Raimondo. Il tutto impreziosito dalle prove dell’orchestra e del coro scaligeri guidati da Chailly, elegante nell’accompagnamento del canto, meticoloso nella cura dei dettagli strumentali.

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