L’orsa maggiore e il Paese minore
C’è un’Orsa Maggiore, lo sa Amarena, e c’è un’Orsa Minore, il dramma delle donne, giovanissime, vittime della violenza di Palermo e di Caivano. Lo dicono le statistiche che analizzano il web. In quel mondo, popolato dai più giovani degli italiani, ha creato più attenzione, più emozione, più commenti, più realtà la morte drammatica e straziante di quella mamma orsa, e del destino dei suoi cuccioli di quanto abbia invece provocato uno dei reati più atroci e più violenti che le cronache possano raccontare.
Se dice una cosa questa statistica su chi siamo e su quanto capiti ormai troppo spesso che la lezione del giorno dopo ce la diciamo solo tra adulti. Oltre a mostrarci dove siamo in grado di arrivare e quanto poco ci sia chiara la ragione per cui il gruppo di giovani diventa branco, il cacciatore che ha ucciso a colpi di fucile l’orsa che dava il senso alla Parco degli Abruzzi, una nemesi della drammatica vicenda che qualche mese fa aveva lasciato il Trentino e l’Italia intera pietrificati di fronte all’incidente di un runner morto dopo l’aggressione dell’orsa jj4, ci dà chiaramente l’idea anche di quanto poco siamo capaci di intervenire. Perché se questi fatti di cronaca hanno lasciato unito il Paese nello sgomento, non hanno abbattuto quel muro invisibile che ormai separa l’Italia in due parti.
Questi padri che lasciano ai loro figli un Paese spettinato, mal funzionante, dove il futuro non solo non è certo ma è intermittente, precario. E questi ragazzi che si rifugiano nel virtuale, dopo che siamo stati noi spaventati da un virus a mostrargli che il mondo si poteva tranquillamente fermare e che tutto, dallo Stato, alla scuola, alla vita reale poteva trovare un sostituto digitale senza che questo ci ponesse il problema di dove stessero andando, di quali fossero i loro pensieri, di quanto fosse per loro diversa la società che noi crediamo di conoscere e le regole su cui si fonda. Per cui di queste storie non possiamo ereditare solo il sentimento, dobbiamo attaccare il cervello.
E dirci con chiarezza che serve rimettere la testa e le mani dentro la società reale. Perché non è un Paese civile né democratico il Paese che si indigna, ma lo è il Paese che si dice con franchezza tutta la verità, soprattutto quella che non piace dire. Il Paese che torna a usare le parole e a chiamare le cose con il proprio nome perché non esiste malattia che possa essere curata se qualcuno prima non la chiama per quello che è. E la malattia dell’Italia si chiama rassegnazione, rassegnazione a un destino diverso da quello che avevamo immaginato e per cui avevamo lavorato e lottato. E questa rassegnazione si trasmette come lungo un conduttore l’energia dentro la società e sortisce un effetto, quello di uccidere il tessuto che noi crediamo ancora integro quando invochiamo le nostre classiche parole d’ordine, quelle della civiltà, quelle della libertà, quelle della giustizia.
Perché quando un padre di famiglia si sente inutile per il futuro dei propri figli, succede che la famiglia si scardina piano piano. Quando la scuola dà l’impressione di non portare verso il lavoro e il benessere, succede che questo futuro si cerchi altrove, dove i modelli ci dicono soldi facili perché con quelli la carta d’identità somiglia di più a quella del Paese. E succede pure che una vicenda di cronaca come quella del Trentino, che ha mostrato prima di tutto gli errori umani e le sottovalutazioni della politica, trasforma un animale che noi abbiamo voluto avere vicino nel nemico da battere, nel pericolo che mina le nostre esistenze, in qualcosa che esso non è, ma che quando ci troviamo di fronte fa scattare in noi la reazione che ci sembra in quel momento più naturale, o addirittura giusta, salvo poi ritrovarsi nella realtà che è ben diversa con una vita rovinata. E allora è un Paese che ci chiude le porte e ci tappa le orecchie, soli dove eravamo prima, ma forse ancora di più.
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