Lo schizzo di Reuber. E la Madonna salvata diventò un’ icona
di ALESSANDRO STADERINI BUSÀ
Due immagini di ere diverse, le cui storie si incrociarono per un momento della Storia. Due Natività in dialogo fra loro, risposte dell’uomo al mistero della sofferenza. La Seconda Guerra Mondiale già infuria in Europa, quando la Germania si lancia a conquistare gli immani spazi della Russia. L’effetto sorpresa ha colto sprovvisti i sovietici, i nazisti dilagano, e sembra proprio che ad Hitler riuscirà quanto a Napoleone era sfuggito.
“Non ci sono atei in trincea” – recita l’aforisma e Josif Stalin non può trascurare alcuna opzione pur di rimandare al mittente lo straniero. 20.000 fra chiese e santuari, su comando del massimo vertice URSS, vengono riaperti al culto mentre agli ufficiali è dato ordine di guidare le truppe al grido di “Avanti con Dio” – riedizione penitente e corretta dell’“Avanti popolo” di marca socialista. Una nazione è chiamata a unirsi alle armi sotto lo stendardo divino, non bastando più quello dell’ideologia. Con la capitale e le città maggiori a un passo dall’essere prese, la capitolazione è vicina. Viene dunque tirata fuori dal magazzino in cui stava chiusa quell’icona che nel ’17, in spirito di Rivoluzione, veniva rimossa dal tabernacolo della Cattedrale della Dormizione del Cremlino.
E’ la Theotókos di Vladimir, anche detta Madonna della tenerezza. Di fronte ad essa venivano incoronati gli zar e per secoli gli eserciti bulgari, tartari, mongoli, si arrestavano senza più colpo ferire. Si tratta di un’eccelsa opera bizantina del XII secolo – raffigurazione di Maria nell’atto di stringere alla guancia il neonato Gesù – che l’aurea di leggenda ritiene dipinta da San Luca. Così, sotto il tiro nemico, la più cara icona per il mondo ortodosso è portata in processione a Leningrado, Mosca, Stalingrado. E’ qui che vede la sua comparsa un’altra Madonna, sconosciuta ai più, non figurando né sui libri d’arte né su quelli di storia. Uno schizzo monocolore come le istantanee dei reportage, oggi esposto nella Gedächtniskirche di Berlino. Neppure il nome dell’autore è sui libri. Si chiamava Kurt Reuber e aveva una trentina d’anni quando il conflitto lo chiamò a lasciare moglie e tre figli, per il Fronte Orientale.
Medico da campo con una laurea in Teologia, di lui ci resta qualche foto, lettere dal fronte, e disegni: volti di bambini, contadini, popolane, prigionieri. Era un romantico vecchio stampo Kurt Reuber, alla Paul Bäumer di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, per capirci. Mani da artista e occhiali tondi da intellettuale. Uno di quei soldati che nel taschino sul cuore preferirono tenere, invece del Mein Kampf, una Bibbia o un taccuino da disegno. Ovvero, nel suo caso, entrambe le cose. Col sopraggiungere dell’inverno, l’epopea della blitzkrieg, famigerata guerra lampo, ha ormai ceduto il passo alla meno nobile rattenkrieg, guerra dei topi – come la chiamano fra loro i soldati tedeschi.
Esorbitanti forze sovietiche li asserragliano desso nella città che porta il nome di Stalin. Decimati dal martellamento d’artiglieria, dai one-shot-one-kill dei cecchini, dalle malattie epidemiche e dalle baionette nei corpo a corpo, gli invasori hanno trovato riparo in un reticolo di trincee e rifugi sotterranei, fra dissenteria e amputazioni per congelamento. L’attesa del 25 dicembre è occasione per tener vivo il calore delle festività trascorse un tempo in famiglia, ma anche speranza nel regalo più atteso: truppe amiche a spezzare l’accerchiamento. “Stiamo tutti insieme in un buco scavato vicino al pendio di una forra nella steppa” – scrive Reuber. Allora il medico mette mano ad una mappa catturata al nemico e sul retro vi immortala l’emblema di quel Natale 1942. “A lungo ho pensato a cosa dovessi disegnare, e alla fine mi sono deciso per una Madonna, o madre con bambino” – confida alla moglie – “la testa della madre e quella del bambino si piegano l’una verso l’altra e un ampio mantello li avvolge entrambi”.
Poi la data ed il luogo. E quattro parole, quelle dell’evangelista Giovanni (Luce Vita Amore), che incorniciano il lato destro di un carboncino 80×105 cm il quale supera le dimensioni fisiche e stilistiche di uno schizzo, facendosi opera d’arte ed icona. La notte della vigilia, trincerati sottoterra, alcuni si regalano sigarette, alcuni tozzi di pane risparmiati alla fame, altri si scambiano oggetti costruiti con le proprie mani. “Ognuno cercava di procurare un po’ di felicità agli altri”, rammenta un ufficiale. E’ allora che il dottor Reuber vede compiersi il miracolo. Non quello del soccorso militare, troppo umano, troppo scontato. Il miracolo è altro e di più eccelsa natura. Negli anfratti dei loro sudici rifugi, infatti, quella notte i topi hanno riacquisito la dignità di uomini. “Restavano in piedi come in trance, devoti e troppo commossi per dire una parola di fronte al disegno appeso alla parete di fango”, riporta il suo diario.
“Per me non ho niente” – gli fa eco la lettera di un tenente – “eppure è stato uno dei Natali più belli e non lo dimenticherò mai”. Ma il loro destino resta segnato, e l’offensiva nemica di fine anno ne accelera l’evoluzione. In 95.000 devono cedere le armi all’Armata Rossa. Li attende sorte identica a quella di oltre 60.000 italiani, parte del contingente che Mussolini aveva offerto all’alleato croceuncinato. I prigionieri vengono fatti marciare nella steppa battuta dai venti siberiani – per chi si ferma un proiettile alla tempia – destinazione lager. Lì finisce anche il medico con le mani d’artista, lì morirà. Se non ce l’aveva fatta a mettersi in salvo prima del collasso della linea del fronte, Reuber è però riuscito a mettere su un aereo l’opera della sua vita. Quella Madonna di Stalingrado, madre di un’umanità in guerra, al di là di ogni colore, divisione, schieramento.
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