Editoriale

L’ipertempo e la democrazia

di Tommaso Cerno -


L’ipertempo e la democrazia

di TOMMASO CERNO

Il fattore tempo cancellato dalla democrazia è l’elemento su cui si sta costruendo il nuovo mondo. La distanza tra il progetto ideale, il progresso politico e la vita reale ci rende ormai spettatori di un tempo in cui la decisione arriva sempre troppo tardi rispetto alla necessità. E così di fronte a un Occidente che crede fermamente nell’idea di un mondo meno inquinato e di un pianeta più sano la fretta democratica, quella cioè di far corrispondere i processi non alle esigenze dei cittadini ma a quelle dei finanziatori, sta mostrando a tutti la grande contraddizione dei tempi nuovi.

Quando il progetto del futuro sembra finalmente tenere conto della sostenibilità e sembra mettere al centro l’ambiente e quindi la sopravvivenza del pianeta del genere umano, ci rendiamo conto che il tempo concesso ai singoli individui e alle loro strutture sociali per adeguarsi a un’esigenza che idealmente tutti sposano ma nella pratica è difficile da realizzare è troppo breve perché il passaggio di era non faccia morti e feriti. E una democrazia con morti e feriti può comportarsi in due soli modi: diventare lentamente un’oligarchia dove il beneficio oggettivo di un processo politico si misura solo su chi è stato in grado di sopravvivergli, o addirittura di migliorare le proprie condizioni grazie a questo passaggio epocale, oppure insorgere e mettersi di traverso non tanto all’idea del progresso quanto alla condizione sociale e materiale a cui è stato posto.

Quella cioè di lasciare indietro la maggioranza dei cittadini, trasformando quindi il processo democratico di sviluppo in una scelta di affari che riguarda solo poche persone e che di fatto sarà pagata dal gran parte della comunità politica e civile. E’ per questa contraddizione che oggi la democrazia sembra traballare. Tutti sanno che nel giro di qualche anno troveranno un punto di stabilità. Ma sanno anche che quando questo punto sarà raggiunto, chi sarà ancora capace di restare in piedi e voltarsi indietro, vedrà dietro di sé un mondo diverso da quello che aveva lasciato. E dentro questo spazio fantastico che gli Stati liberali faticano a vedere e stentano ad affrontare si incastra il ritorno del nucleare.

Quella parola, che aveva contaminato la metà del secolo scorso, diventando sinonimo di pericolo e di paura, perché l’impressione era quella di una sottomissione totale a poteri di governo ed economici che avrebbero gestito non solo il servizio energetico ma anche lo spettro che sopra questo aleggiava, e che ora invece torna di moda perché anche i sassi hanno capito che passare dal fossile alle rinnovabili ha bisogno appunto di un tempo molto più lungo di quanto ci abbiano raccontato. E così un vecchio arnese del 900, debitamente rinnovato e adeguato alle tecnologie di oggi, torna a presentarsi non più come il volano per saltare nell’epoca successiva, come fu nel secondo dopoguerra, ma come cuscinetto ipertecnologico, diminuito, per consentire davvero alle democrazie di imboccare il viale del futuro senza dimenticare alla partenza il grosso di una società civile che non è in grado di realizzare davvero questo passaggio epocale in pochi anni.

La politica insomma deve rendersi conto che la sua inefficacia non dipende dalla lentezza, come era 50 anni fa, ma dalle eccessiva velocità dei processi di trasformazione socio economici. Quelli che chiedono a gran voce dei cuscinetti per poter transitare da un lato all’altro del nostro tempo senza compromettere l’unità sociale e soprattutto il quieto vivere di milioni di italiani. E’ quindi su questo supplementare della grande partita con il progresso che si confronteranno destra e sinistra. Fra chi vuole affermare di avere capito per primo che le cose stanno cambiando, e chi invece combatte perché il cambiamento inevitabile sia gestito davvero dall’uomo e possa entrare nelle nostre vite senza pagare prezzi troppo alti.


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