L’intervento a cuore chiuso: una storia lunga un secolo
L’intervento a cuore chiuso: una storia lunga un secolo. Da Harvard nel 1923 ad oggi: i tentativi e i progressi scientifici. E quell’evoluzione paradossale che ci riporta indietro nel tempo.
di UGOLINO LIVI
Era il 20 maggio 1923 quando un chirurgo dell’Università di Harvard, Elliot Cutler, affrontò con successo un intervento definito “a cuore chiuso”, mai riuscito prima, nel tentativo di correggere un restringimento della mitrale, la valvola cardiaca tra le cavità atriale e ventricolare sinistre, atta a garantire unidirezionalità del flusso sanguigno ed evitarne il rigurgito durante la contrazione ventricolare. L’intervento, eseguito su una ragazzina di 12 anni, consistette nell’esposizione del cuore tramite un’apertura mediana del torace ed inserimento di uno strumento, chiamato “valvotomo”. Questo, munito di una lama, fu fatto progredire fino alla mitrale da cui furono resecati alla cieca due frammenti di tessuto valvolare al fine di allargarne l’orifizio. La giovane paziente superò l’intervento e visse per ulteriori cinque anni. Ad inizio del secolo scorso la stenosi mitralica era malattia diffusa e conseguenza di infiammazione cardiaca, che si accompagnava generalmente alla malattia reumatica da Streptococco beta-emolitico. Infezione che per ragioni socio economiche, sanitarie e per carenze diagnostico-terapeutiche mieteva molte vittime. I tempi non erano maturi per un approccio chirurgico e la diagnostica, senza supporto tecnologico, si limitava alla clinica, alla capacità semeiologica del medico, alla lettura dell’elettrocardiogramma e della radiografia. L’orientamento della comunità scientifica, allora, propendeva per l’inefficacia di un intervento sulla mitrale, ritenendo la malattia secondaria ad una compromissione del muscolo cardiaco rispetto a un’ostruzione meccanica della valvola. Un influente clinico inglese del tempo, Sir James Mackenzie, a commento del successo chirurgico di Cutler, scrisse: “Che cosa stupida ha fatto! Dovrebbe sapere che i problemi di chi è affetto da stenosi mitralica sono determinati principalmente dalla malattia del miocardio e non dell’orifizio mitralico ristretto”. I clinici erano restii a indirizzare i pazienti con stenosi al chirurgo e se lo facevano era solo per un tentativo estremo. Cutler fino al 1928 si cimentò in altri sei casi di stenosi mitralica, ma nessuno sopravvisse, tant’è che decise di interrompere il programma. Due anni dopo il primo intervento, il 6 maggio 1925, il chirurgo londinese Henry Soutter dimostrò la fattibilità e l’efficacia di una manovra digitale di correzione della stenosi mitralica, introducendo il dito indice attraverso l’auricola sinistra fino all’orifizio mitralico e provocando una lacerazione delle adesioni cicatriziali che tenevano uniti i lembi valvolari, causa del restringimento dell’orifizio. Soutter aveva anticipato di 25 anni l’intervento noto come commissurotomia mitralica, adottando una tecnica semplice ed efficace, che sarà adottata da chirurghi di tutto il mondo. Per Soutter fu il primo e l’ultimo caso di stenosi mitralica da lui operato. Il motivo? Non gli era stato più riferito un paziente con stenosi mitralica, a riprova della poca fiducia del beneficio della chirurgia. Bisognerà attendere il decennio successivo quando tre pionieri della chirurgia cardiaca, Charles Bailey a Filadelfia, Dwight Harken a Boston e Russell Brock a Londra, ripresero a trattare chirurgicamente la mitrale “a cuore chiuso” sia con manovra digitale sia con strumentazione speciale, ottenendo risultati soddisfacenti. Grazie a loro, la chirurgia della mitrale “a cuore chiuso” riuscì a superare iniziali fallimenti e scetticismi, per conoscere uno sviluppo rapido e universale.
L’intervento a “cuore chiuso” nel nostro Paese
In Italia questa chirurgia ebbe ampia diffusione negli anni ’50. Si deve al chirurgo Achille Maria Dogliotti il primo intervento, eseguito a Torino il 2 febbraio 1951, e nel 1952, il chirurgo toracico Angelo De Gasperis pubblicò i primi sette casi operati di stenosi mitralica all’Ospedale Ca’ Granda di Milano, mentre altri chirurghi italiani – Valdoni a Roma e Ceccarelli a Padova – acquisivano grande esperienza su centinaia di pazienti. Ma sarà la data del 6 maggio 1953 a entrare nella storia della medicina: quando John Gibbon a Filadelfia chiuse in una diciottenne un difetto del setto interatriale “a cuore aperto” in circolazione extra-corporea. La messa a punto della macchina cuore-polmoni rivoluzionerà, con il perfezionamento tecnologico, tutto l’approccio chirurgico alle patologie cardiache e non solo. La possibilità di vicariare la funzione cardiopolmonare con una macchina esterna e isolare il cuore dalla circolazione, fermarlo e ispezionarlo e correggere le anomalie, ha permesso di restituire una vita normale a milioni di persone, garantendo buona qualità e aspettativa di vita. Nel caso della patologia mitralica, ha consentito riparazioni valvolari sempre più sofisticate con soluzioni tecniche conservative o sostitutive con protesi altamente performanti. Col tempo la chirurgia della mitrale si è evoluta perché la patologia è radicalmente cambiata: la stenosi mitralica di origine reumatica è praticamente scomparsa nei paesi più industrializzati, sostituita da una forma degenerativa che ne causa l’insufficienza. Anche l’approccio chirurgico è diventato mininvasivo, per ridurre l’aggressività operatoria e garantire risultati a lungo termine. Negli ultimi anni si è assistito ad un’ulteriore evoluzione, con ricorso ad approcci percutanei, inserimento di sonde o cateteri intravascolari, che consentono la correzione di una stenosi o di un’insufficienza mitralica mediante dispositivi altamente performanti. Dopo 70 anni di chirurgia “a cuore aperto”, l’evoluzione riporta paradossalmente a procedure “a cuore chiuso”. Un ritorno al passato, ma con tecnologia e conoscenze che permettono di non lavorare “alla cieca”, ma a essere poco invasivi e assai efficaci. Tutto questo non sarebbe avvenuto senza il lavoro pionieristico di alcuni temerari che credevano nel trattamento chirurgico della patologia mitralica e nella possibilità di renderlo accessibile alla moltitudine di malati. Appropriato l’aforisma di Bernardo di Chartres “Nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes”: possiamo vedere più lontano solo in quanto seduti sulle spalle dei giganti del passato.
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