L’indagine coi baffi: Aerei e navi da guerra a Bogotà. Indagati D’Alema e Profumo
MASSIMO D'ALEMA ALESSANDRO PROFUMO
Un gruppo d’affari, con un ex premier come intermediario “informale” e un disegno criminoso, secondo gli investigatori, che avrebbe agito tra Italia, Usa e Colombia, al fine di piazzare al governo di Bogotà una maxi fornitura, per un valore di 4 miliardi di euro, di aerei e navi da guerra di aziende italiane a partecipazione pubblica. Rispondono di corruzione internazionale aggravata gli otto indagati dalla Procura di Napoli, tra cui figurano l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, l’ex amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, il già direttore del settore Navi di Fincantieri, Giuseppe Giordo, e Gherardo Guardo, contabile di D’Alema. Il fascicolo è stato aperto per fatti che risalgono al gennaio 2022 e ieri sono state disposte una serie di perquisizioni, effettuate dalla Digos nelle abitazioni e negli uffici degli indagati.
Nel mirino dei pm partenopei una commessa da 4 miliardi di euro per la fornitura alla Colombia di aerei M346, corvette e sommergibili, prodotti da Leonardo e Fincantieri. L’affare avrebbe preso il via quando i due broker pugliesi Francesco Amato ed Emanuele Caruso, che “operavano quali consulenti per la cooperazione internazionale del Ministero degli Esteri della Colombia”, si legge nel decreto di perquisizione emesso dai magistrati partenopei, “tramite Giancarlo Mazzotta, riuscivano ad avere contatti con Massimo D’Alema, il quale per il curriculum di incarichi anche di rilievo internazionale rivestiti nel tempo (ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri), si poneva quale mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane, ossia Alessandro Profumo quale amministratore delegato di Leonardo e Giuseppe Giordo quale direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri”. L’operazione, secondo l’accusa, “era volta a favorire ed ottenere da parte delle autorità colombiane la conclusione degli accordi formali e definitivi aventi ad oggetto le forniture e il cui complessivo valore economico ammontava a oltre 4 miliardi di euro”.
A tal fine Amato e Caruso, scrivono i pm di Napoli, “offrivano e comunque promettevano ad altre persone, che svolgevano funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio presso le autorità politiche, amministrative e militari della Colombia, il corrispettivo illecito della somma di 40 milioni di euro, corrispondenti al 50% della complessiva provvigione di 80 milioni di euro prevista quale success fee, determinata nella misura del 2% del complessivo valore di 4 miliardi di euro delle due commesse in gioco e da corrispondersi in modo occulto”. Ottanta milioni “da ripartirsi tra la “parte colombiana” e la “parte italiana attraverso il ricorso allo studio legale associato americano Robert Allen Law, con sede in Miami (segnalato ed introdotto dal D’Alema quale agent e formale intermediario commerciale presso Fincantieri e Leonardo) rappresentato in Italia e per la specifica trattativa da Umberto Bonavita e Gherardo Gardo”.
Lo studio legale statunitense avrebbe preparato i contratti, in cui sarebbero riportate anche le somme per l’intermediazione destinate agli indagati, ma alla fine l’affare sarebbe saltato a causa di un disaccordo nella redistribuzione degli 80 milioni tra gli italiani e i funzionari colombiani. Se 40 milioni, infatti, avrebbero dovuto essere suddivisi tra D’Alema&Co, l’altra metà era destinata ai pubblici ufficiali di Bogotà, che avrebbero dovuto garantire gli accordi con il governo colombiano per la commessa da 4 miliardi. I destinatari di quei soldi sarebbero Edgardo Fierro Flores, il capo del gruppo di lavoro per la presentazione di opportunità in Colombia, Marta Lucia Ramirez, ministro degli Esteri e vicepresidente della Colombia, German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, delegati della seconda commissione del Senato colombiano, e altri soggetti in via di identificazione.
Un’ipotesi accusatoria bollata come “infondata” da Massimo D’Alema, il quale, come riferito dal suo avvocato Gianluca Luongo, “ha fornito la massima collaborazione all’autorità giudiziaria. Siamo certi che sarà dimostrata la più assoluta infondatezza dell’ipotesi di reato a suo carico”. Contesta invece la competenza territoriale alle indagini della Procura partenopea il penalista Cesare Placanica, difensore di Giusppe Giordo. “Il mio assistito è assolutamente tranquillo anche perché siamo in presenza di una costruzione giuridica assolutamente ardita. Resa, inoltre, in virtù di una competenza territoriale a procedere che si fatica a comprendere”, ha dichiarato l’avvocato. “Stupisce peraltro, in relazione a tale problematica”, ha aggiunto Placanica, “che malgrado il clamore della vicenda ci sia stata una sola procura della Repubblica su tutto il territorio nazionale che abbia ritenuto sussistente profili di rilevanza penale. Così seri da meritare, addirittura, un atto di perquisizione, inevitabilmente destinato a finire nel circuito mediatico”, conclude il legale, facendo intendere l’avvio di una battaglia giuridica tesa a minare non solo l’impianto accusatorio dell’inchiesta, ma le basi dell’intero fascicolo napoletano.
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