Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – La ricchezza italiana a costo zero

di Michele Gelardi -


La più grande risorsa economica è la libera iniziativa; soprattutto in Italia, che non ha materie prime. Eppure si fa di tutto per limitarla o addirittura inibirla, come se fosse una fonte di pericolo per la società e intralcio alla gestione della cosa pubblica. Lo Stato italiano, in unità di spirito con tutte le sue appendici, non ripone fiducia negli italiani, considerati niente più che potenziali delinquenti. Ne accetta a malincuore l’iniziativa, dopo averne vagliato, nel modo più occhiuto possibile, la piena “conformità” (cartolare) alla tipologia e ai parametri prestabiliti. Il controllore è un burocrate, del quale la Repubblica diffida in egual misura, cosicché il suo controllo non basta a scongiurare il pericolo insito di per sé nell’iniziativa e occorre raddoppiarlo o magari triplicarlo; nonché impreziosirlo dei pareri del comitato tecnico-scientifico e dell’ufficio legale. Non è semplice illustrare le profonde radici storiche della diffidenza reciproca tra l’apparato burocratico e il cittadino; ma anche tra il sovrano politico e i funzionari pubblici. Sia bastevole sottolineare che l’ideologia dello Stato etico, di età fascista, non contempla alcun diritto (soggettivo) della persona, se non necessariamente derivato dal diritto (oggettivo) dello Stato; meno che mai il diritto di iniziativa economica. Sicché, semplificando, si può ravvisare nello statalismo, storicamente dominante in Italia, l’origine della cultura della diffidenza e il vero nemico della libera iniziativa. A questa stregua, si possono cogliere tre paradossi.
Primo: si preferisce l’indebitamento (improduttivo) all’investimento (produttivo) a costo zero. La “ricchezza delle nazioni” (Smith) risiede, in primo luogo, nell’ordinamento di libertà che agevola la dinamica di mercato e non la opprime con mille divieti e paletti di recinzione. L’Italia delle piccole imprese, capillarmente diffuse nel territorio, e dei distretti industriali sorti spontaneamente, senza alcuna pianificazione di Stato, ne è la dimostrazione più lampante. Al contempo è agevole constatare che gli anni del nostro boom economico, nel dopoguerra, coincidono con la minore presenza dello Stato nelle attività economiche. Malgrado l’evidenza storica, oggi si pretende di “creare” ricchezza, maggiorando la spesa pubblica dei bonus e dei “Piani” similsovietici a debito, piuttosto che liberalizzare l’iniziativa economica a costo zero.

Il secondo paradosso è che gli istituti giuridici fascisti sono giunti graditi agli “antifascisti” per autocelebrazione. Nella Repubblica antifascista è stata accolta di buon grado una parte rilevante della legislazione fascista, fondata sulla supremazia dell’autorità pubblica, alla quale appartiene il potere di negare provvedimenti di “concessione” ed emanare provvedimenti restrittivi, in dispregio dei diritti soggettivi dei cittadini. Un esempio particolarmente significativo è dato dalla legislazione urbanistica, vera palla al piede della convivenza civile, ancora basata sulla legge fascista n. 1150 del 1942. Sopravvivono i principi fondanti, di ispirazione fascista, riassumibili nella pianificazione centralistica dell’utilizzo dei suoli, nei controlli e nulla osta preventivi con efficacia sospensiva, nell’assenza di obblighi (sanzionati) della pubblica amministrazione, nelle competenze plurime e sovrapposte, nella durata secolare delle difformità pregresse, vere o presunte; in sintesi, in una serie infinita di rigidità immobilizzanti a carico della proprietà privata. Se poi volgiamo lo sguardo verso l’ordinamento repressivo, ci accorgiamo che la “perla” delle misure di prevenzione, gravanti sulla persona che non ha commesso alcun reato – unicum nel panorama mondiale, vigente nel periodo fascista come confino di polizia – è stata ulteriormente potenziata, nonché arricchita della confisca preventiva, prima ignota, la quale viola palesemente il diritto di proprietà. Il che testimonia la continuità ideale tra il socialismo nazionale di allora e il socialismo internazionalista di oggi, in nome del comune statalismo, che mortifica la proprietà e l’iniziativa privata, mentre genera incertezza del diritto.

Il terzo paradosso, legato al primo, si può riassumere nella domanda: come mai perfino i governi, che si dichiarano “liberali”, omettono di liberare a costo zero l’iniziativa privata dai legacci paralizzanti dello statalismo imperante? Non hanno appreso la lezione della storia e credono ancora che i bonus dello Stato e i correlativi debiti possano creare ricchezza?


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