L’eroe antisequestri Tripodi ucciso dalla ’ndrina: caso riaperto
L’Antimafia riapre il cold case sull’omicidio del brigadiere Carmine Tripodi, il carabiniere eroe che lottava contro la stagione dei sequestri di persona in Calabria. Tripodi fu trucidato la sera del 6 febbraio 1985 a San Luca, ancora oggi roccaforte della ‘ndrangheta. Un commando lo attese all’uscita di una curva a gomito, sbarrò la strada alla sua auto ed esplose sette colpi di lupara. Il carabiniere, seppur ferito, riuscì ad estratte l’arma e a rispondere al fuoco, colpendo uno dei sicari, ma venne ucciso e gli assassini infierirono sul suo cadavere. I killer, appartenenti alle cosche delle ‘ndrine locali, sono ancora impuniti, nonostante sarebbero stati tutti individuati. Perché i processi che si sono svolti nel tempo sono finiti con uno stesso copione: assoluzione.
Dopo 38 anni, però, la speranza di poter incastrare i responsabili è una possibilità concreta, grazie alle nuove analisi scientifiche disposte dalla Procura distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che ha riaperto il fascicolo e ha iscritto quattro persone nel registro degli indagati. Nei giorni scorsi, infatti, i pm della Dda reggina Alessandro Moffa e Diego Capece Minutolo hanno notificato gli avvisi di garanzia ai presunti componenti del commando e disposto accertamenti tecnici irripetibili su alcuni reperti sequestrati sulla scena del crimine, rimasti in tutti questi anni in un cassetto dell’ufficio di Locri. Si tratta di pezzi di indumenti, alcuni sassi e toppe di asfalto sui quali c’è il sangue di uno dei sicari della banda, proprio quello che è stato ferito da uno dei sei colpi esplosi da Tripodi dalla sua arma di ordinanza durante l’imboscata. Gli accertamenti tecnici irripetibili sono stati effettuati ieri dai carabinieri del Ris di Messina, alla presenza dei consulenti di parte, e ora verrà isolato il dna per poter procedere a una comparazione con i profili genetici dei sospettati. Se verrà trovata una corrispondenza, gli investigatori avranno finalmente la prova regina per poter risolvere il cold case della terribile fine di Carmine Tripodi, un uomo che è diventato anche un simbolo della lotta dello Stato alla ‘ndrangheta. Il militare, infatti, è il primo carabiniere ucciso in un agguato dalla criminalità.
La ‘ndrangheta ha voluto ucciderlo non solo per vendetta, ma anche per lanciare una sfida alle forze dell’ordine che, in quegli anni, tentavano di fermare la stagione dei sequestri, una piaga che aveva valicato i confini calabresi e mostrato la crudeltà delle ‘ndrine, che rapivano imprenditori e professionisti e li tenevano in ostaggio in prigioni di fortuna ricavate nei boschi dell’Aspromonte, in attesa di ricevere dalle famiglie riscatti miliardari. Tanto che per mettere freno alle centinaia di colpi portati a segno dai sequestratori fu necessaria una legge, la 81 del 1991, che congelava i beni alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti. Ma per tre decenni, tra gli anni Settanta e il Novanta, San Luca e l’Aspromonte divennero il fortino dei sequestratori. E lì, nel 1980, fu inviato Tripodi, a combattere contro le ‘ndrine e a segnare i primi duri colpi ai criminali. Fu lui a guidare le indagini e ad arrestare i responsabili del rapimento di Giuliano Ravizza, il re delle pellicce Annabella rapito a Pavia il 24 settembre 1981, tenuto prigioniero per tre mesi. Sempre Tripodi gestì il caso Carlo De Feo, l’ingegnere napoletano prigioniero per quasi un anno, dall’83 all’84, finché non fu pagato il riscatto mostre di 4,4 miliardi di lire. Il brigadiere accompagnò De Feo sui luoghi della prigionia e fornì un contributo prezioso alle indagini. Scoprì gli otto rifugi dove era stato tenuto l’ostaggio, individuò le persone e tracciò l’organigramma delle cosche, portando a una quarantina di arresti tra le famiglie della ‘ndrangheta.
L’investigatore di razza andava fermato e la sera del 6 febbraio 1985 la sentenza di morte dei capi venne eseguita. Il nuovo fascicolo punta ora non solo agli assassini, ma anche ai nomi di coloro che pronunciarono quella sentenza.
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