Esteri

Le spaccature dell’Asean un vantaggio per la Cina

di Redazione -


di FERNANDO ORLANDI
La scorsa settimana i leader dei paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (Asean) si sono riuniti in un vertice con l’Australia, organizzato dal primo ministro Anthony Albanese, dalle evidenti origini italiane.
L’ASEAN di oggi è assai diversa dall’organizzazione fondata nel 1967, il cui collante era costituito dalla minaccia comunista, oltre alla collaborazione nello sviluppo socio-economico e reciproca assistenza. La fine della guerra del Vietnam fu seguita da un periodo di crescita economica che rafforzò l’ASEAN e le permise di adottare una risposta comune all’invasione vietnamita della Cambogia dell’aprile 1977.
Dal luglio 1995 il Vietnam fa parte dell’ASEAN (e la Cambogia dall’aprile 1999) e nel dicembre 2008 l’Associazione ha promulgato la Carta dell’ASEAN, con l’obiettivo di avvicinarsi a una comunità in stile Unione Europea. L’Associazione ha poi vissuto alcune forti crisi interne: la gestione dell’insurrezione nella Thailandia meridionale, l’ostracismo verso Timor Est in solidarietà verso l’Indonesia da cui rivendicava l’indipendenza, e più di recente la risoluzione del conflitto in Myanmar, paese in totale instabilità politica ed economica. Conflitto nei confronti del quale l’ASEAN ha espresso molte condanne verbali ma intrapreso ben poche azioni concrete, in ragione delle proprie divisioni interne.
Le fratture interne all’ASEAN sono risultate evidenti anche nel recente vertice di Melbourne, in una mutata la situazione internazionale: non solo la guerra in Ucraina e la postura cinese sulla scena internazionale, ma soprattutto per il processo di ridefinizione delle alleanze globali, all’interno del quale l’ASEAN si trova in difficoltà nel gestire il precario equilibrio su cui si è affidata nel passato.
L’incidente navale occorso tra navigli della Cina e delle Filippine nell’arcipelago delle Spratly, nel Mar cinese meridionale, è l’ultimo di una lunga serie e dice chiaramente qual è la postura (altro che “ascesa pacifica”) di Pechino nei confronti dei piccoli vicini. Di una Cina che non intende rispettare il diritto internazionale ma invece vuol far valere la sua forza.
Ci si dimentica, infatti, quanto siano sorprendentemente labili le rivendicazioni sul Mar cinese meridionale. Soprattutto quelle sui suoi non specificati “diritti storici”, che nulla hanno a che fare con i diritti rivendicabili nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).
La cosiddetta “linea dei nove tratti”, da nessuno legalmente riconosciuta, e anzi contestata, è tracciata su una mappa sconosciuta pubblicata dal governo del Guomindang alla fine del 1947. Sulla base dei disposti della Convenzione sul diritto del mare, all’inizio del 2013 il governo delle Filippine avviò un arbitrato nei confronti della Cina. La Corte nel luglio 2016 sentenziò all’unanimità in favore delle Filippine su gran parte delle questioni sollevate, concludendo che non si rilevavano prove che la Cina avesse storicamente esercitato un controllo esclusivo sulle acque all’interno della linea dei nove tratti, e che quindi non vi era “nessuna base legale” per “rivendicare diritti storici” sulle risorse contenute in quelle acque. Inoltre la Corte concluse che la rivendicazione dei “diritti storici” della Cina sulle aree marittime comprese all’interno della linea dei nove tratti non avrebbe alcun effetto legale se dovesse superare quanto previsto dalle norme della UNCLOS.
Verdetto rifiutato da Pechino perché “infondato”. Per Xi Jinping “la sovranità territoriale della Cina e i diritti marittimi nel Mar cinese meridionale non saranno in alcun modo influenzati dalla cosiddetta sentenza”. Aggiunse che il suo paese era comunque “impegnato a risolvere le controversie” con i suoi vicini.
Ma le controversie con la Cina, a guardare ai fatti, non si risolvono sempre pacificamente, come insegna la storia di quel paese. Al vertice di Melbourne si è auspicata l’adozione di un “codice di condotta” condiviso da Pechino finalizzato a ridurre i rischi di incidenti navali. Codice, come ha rivelato Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore, che è già stato approntato, ma che ancora non ha trovato riscontro tra le parti. Gli “incidenti” provocati dai navigli cinesi, pertanto, non verranno meno. Resta poi la minacciosa postura, sempre più aggressiva verso Taiwan – non dimentichiamolo, una vera democrazia.[/IDE-TESTO]


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