Le Big Tech hanno meno potere di quanto pensi
La narrativa dominante, in Italia e non solo, presenta gli stati come semplici strumenti nelle mani delle grandi industrie e delle Big Tech. Si dice che i governi siano deboli, prigionieri delle lobby e incapaci di esercitare una vera sovranità. Ma se fosse vero, allora perché vediamo i giganti della tecnologia allinearsi con i nuovi equilibri politici, invece di dettarli?
Le dichiarazioni di Mark Zuckerberg all’indomani della vittoria di Donald Trump, nonché il dibattito sulle tasse ai super-ricchi emerso a Davos, ci forniscono una (ennesima) chiave di lettura opposta: non sono gli stati a essere sottomessi ai colossi economici, ma i colossi economici a essere sottomessi alla politica.
Dopo il trionfo elettorale di Trump, Mark Zuckerberg ha promesso di restaurare la libertà di espressione sulle piattaforme di Meta, denunciando di fatto il clima censorio imposto soprattutto in Europa negli ultimi anni, in particolare durante la pandemia da covid-19. L’ammissione di Zuckerberg è emblematica: se le Big Tech fossero davvero indipendenti e onnipotenti, non dovrebbero preoccuparsi delle elezioni politiche o delle regolamentazioni statali. Eppure, alla vittoria di un leader conservatore, si affrettano a riposizionarsi. Questo è il comportamento di aziende che dipendono dal potere politico, non di entità superiori ad esso.
Se davvero le Big Tech governassero il mondo, il ritorno di Trump non cambierebbe nulla per loro. Anzi, avrebbero fatto di tutto per far vincere Kamala Harris, certamente più propensa a perseguire politiche socialiste e progressiste. Eppure, vediamo che la politica di moderazione e censura dei contenuti adottata da questi personaggi cambia in funzione dei nuovi equilibri politici. Questo ci mostra come sia spesso l’ideologia dominante nei centri del potere (Washington e Bruxelles) a definire il comportamento delle aziende, e non viceversa. Si pensi solo al fatto che, durante la presidenza Biden, le grandi aziende furono costrette a inserire nel proprio organigramma un ufficio dedicato all’inclusività e all’attenzione delle minoranze, poi prontamente smantellato verso la fine dell’ultimo mandato presidenziale.
A rafforzare questa tesi, al recente World Economic Forum di Davos un gruppo di miliardari e milionari dei Paesi del G20 ha chiesto pubblicamente un aumento delle tasse sui super-ricchi. A prima vista, questo sembrerebbe un atto di grande generosità, ma in realtà è l’ennesima dimostrazione del rapporto di subordinazione tra il grande capitale e la politica. Se i miliardari stanno implorando di essere tassati di più, significa che comprendono che il vero potere risiede negli stati e nei loro apparati fiscali e burocratici. “Chi possiede i mezzi, possiede virtualmente tutti i fini”, diceva il grande economista austriaco Hayek.
Si badi bene che non è il libero mercato a rendere potenti le grandi imprese, ma il capitalismo di stato, fatto di regolamentazioni, sussidi e favoritismi. Accordi politici ed economici fatti per lo più dietro le quinte. Molte delle aziende più influenti non sono arrivate al vertice grazie alla libera concorrenza (cioé al merito di soddisfare davvero i bisogni dei consumatori), ma grazie a trattamenti di favore concessi dai governi.
In questa prospettiva, bisogna chiarire un punto fondamentale: il socialismo non è assenza di capitalismo, ma capitalismo di stato. Qualcuno deve pur possedere i mezzi di produzione, e in un sistema socialista non è il mercato a decidere chi, ma lo Stato e le sue élite burocratiche. Gli eventi di Davos e le parole di Zuckerberg dimostrano che il problema non è il potere delle Big Tech, ma l’intreccio perverso tra politica e grandi aziende. Le Big Tech non impongono la loro volontà agli stati: si adattano alla volontà politica dominante, cercando di trarne vantaggio: è più facile sbaragliare i concorrenti con la forza della legge e delle iniezioni di denaro pubblico, che non tramite i più o meno lenti processi di arricchimento causati dalla competizione di libere imprese.
La voce più critica contro il World Economic Forum è venuta da un capo di stato, non da un miliardario. Javier Milei, presidente dell’Argentina, ha rotto con la tradizione dei discorsi globalisti di Davos, denunciando la sua “agenda woke” e il ruolo del Forum come strumento del socialismo di ogni colore. Ha invitato i leader mondiali a prendere esempio dall’Argentina per “rendere l’Occidente di nuovo grande”, riprendendo il noto slogan trumpiano. Milei non è un industriale, non è un magnate della tecnologia, non è un esponente delle Big Tech: è un politico, eppure la sua voce ha avuto un impatto globale. Questo perché il vero potere non è nelle mani delle imprese, ma in quelle degli stati. E Milei lo ha capito bene.
Il vero problema non è che gli stati siano deboli e sottomessi al mercato, ma che la politica abbia trasformato il mercato in un’estensione dei propri scopi ideologici. La libertà economica e la libera impresa vengono erose non da un capitalismo sfrenato, ma dall’incessante ingerenza degli stati.
L’illusione che i governi siano impotenti e le Big Tech onnipotenti serve solo a nascondere la realtà: chi decide davvero le sorti dell’economia globale non sono le aziende, ma la politica. E finché i cittadini continueranno a credere il contrario, i veri responsabili dello stato attuale delle cose continueranno a operare indisturbati. E si continuerà a chiedere “maggiore tassazione” per risolvere tutti i problemi (si pensi al mantra di Greta Thumberg ormai passato di moda: marionetta delle Big Tech o del socialismo internazionale?). Ma cos’è la tassazione se non il trasferimento coatto dei mezzi di produzione (e il denaro è uno dei mezzi principali) dai cittadini alla classe politica dirigente?
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