Attualità

Le armi come religione e l’epoca della guerra

di Francesca Chaouqui -


Le armi come religione e l’epoca della guerra

Di certo non si è perso tempo a zittire chi ha osato intervenire sulla questione israelo-palestinese di questi giorni. Si avverte quasi il desiderio malsano di intimorire anche a distanza dai territori infuocati chi condanna l’incursione terroristica o non risponde come si aspettano gli islamisti, e non i musulmani, al grido “Allah Akhbar”.

Il presidente francese Macron è intervenuto con risolutezza ordinando il divieto delle manifestazioni pro-palestinesi sul territorio francese e sanzioni contro chi turba l’ordine pubblico. Il primo Paese, la Francia, ad intraprendere azioni drastiche per fermare l’ondata insensata del terrorismo che si maschera con la giustificazione religiosa ma che non ha nulla a che vedere con gli insegnamenti del Corano, ha pagato con la vita di un innocente e la paura e il terrore disseminato in un istituto scolastico il proprio libero pensiero. Non stupisce che l’attentatore oltre alla sua giovane età sia ceceno, non stupisce che a morire sia un libero cittadino di cui si conosce solo la professione, insegnante di letteratura. Che questa guerra duri da fin troppo tempo ce lo raccontano i ragazzi come l’attentatore, nati e cresciuti a suon di mitragliatrici, non conoscono il mondo e la vita fuori dal contesto bellico; che la vittima sia uno sfortunato e simbolico caso è il segno dell’insensatezza dell’azione terroristica; che questa azione sia stata compiuta da un ceceno conferma che l’America sostiene i fondamentalisti israeliani così come la coalizione russa alimenta quelli palestinesi. Entrambi sotto il falso nome delle “missioni di pace”, peacekeeping, inviano armi e capitale umano per sostenere l’una o l’altra causa di morte e non trovano la via del dialogo. Nella guerra di potere tra Russia e America a farne le spese è anche l’Europa tirata di qua e di là come ago della bilancia ma l’Oriente con l’ingresso della Cina tra le potenze mondiali sta destabilizzando gli equilibri e se si continua sulla via delle armi potremmo a breve decretare un tramonto dell’Occidente così come è stato finora pensato.

La bramosia di soggiogare il pianeta con il modello americano è decontestualizzata nel secolo dell’innovazione tecnologica, dei progressi sociali e culturali dell’umanità; non c’è focolaio di guerra nel mondo in cui non sia presente l’azione americana e questo basterebbe a far comprendere su cosa si basa l’economia di un continente che non riesce a gestire i suoi confini ma impegna risorse in cause lontane fisicamente e culturalmente. L’intervento americano nel secondo conflitto mondiale non è lo stesso di quello che vediamo oggi; con la nascita dell’ONU si auspicava l’unità tra i paesi nella condivisione del bene comune ma qualcuno ha intravisto troppi vantaggi economici e oggi i popoli, assoggettati in nome della libertà, chiedono giustizia ribellandosi a tutto ciò che in forme garantiste i potenti offrono. L’intero pianeta deve fare i conti con la propria politica che oggi ha perso i tratti dell’arte del governare per vestire i panni della gestione economica. La politica economica di questo tempo ha reso le grandi potenze prive di virtù, prive del cuore che dovrebbe animare l’amministrazione di una comunità di persone. Gli egoismi delle nazioni più grandi hanno trasformato il pianeta in aggressori e vittime e ciò non giova né alla Politica come attenzione al bene comune, né all’Economia, come strumento per la gestione delle risorse. C’è bisogno di una nuova narrativa per la geopolitica economica; c’è bisogno di un passo indietro dei capi delle nazioni per iniziare un dialogo fraterno dove l’obiettivo non è quanto si guadagna né chi guadagna ma come costruire e assicurare al mondo la pace.


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