“Lavoratori strozzati da tasse e burocrazia Ecco perché l’Italia non investe sui giovani”
MASSIMILIANO VALERII DIRETTORE GENRALE DEL CENSIS
“Più tende per tutti. È la conseguenza della corsa alla competitività. Le imprese italiane, a causa di burocrazia e tasse, hanno dovuto mettere mano ai salari e questi purtroppo sono gli effetti”. A dirlo Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis.
Davanti agli atenei le tende degli studenti che non riescono a pagare gli affitti. Cosa sta succedendo?
Siamo di fronte a una generazione perduta. Il problema dei giovani è che sono pochi. Ciò significa che hanno una scarsa capacità di rappresentare i loro interessi e di incidere politicamente. Ecco perché per far sentire la loro voce devono ricorrere a manifestazioni come quella dei fuorisede. È l’unico modo per essere ascoltati.
Ci sono dati che attestano quanto dice…
Nel 1951, quando c’è stato il primo censimento dell’Italia repubblicana, gli under 35 rappresentavano il 57 per cento della popolazione. Adesso, invece, sono il 32 per cento. Mi sembra normale, pertanto, che una politica alla ricerca esasperata del consenso sia più interessata a parlare alle persone più avanti con l’età. Non a caso si discute sempre più di pensioni, mentre i ragazzi sono costretti ad accamparsi nelle tende.
Vivere, in generale, in Italia costa tanto. Ad avere difficoltà non sono solo gli studenti. Perché?
Veniamo da 30 anni di bassa crescita.
Prima del Covid, però, qualcuno parlava di segnali di ripresa…
Erano segnali sostanzialmente riconducibili all’export, non alla domanda interna. Mi riferisco a consumi e investimenti delle famiglie.
Il fenomeno è riconducibile anche a un mancato aumento degli stipendi?
Tra il 1990 e il 2020, l’Italia, in tutta l’area sviluppata dell’Ocse, è l’unica che ha registrato una riduzione, in termini reali, delle retribuzioni medie lorde annue (-2,9%). In Francia e in Germania sono aumentate del 30%, mentre nel Regno Unito addirittura del 40%. Stiamo parlando di un confronto fatto a parità di potere d’acquisto. Gli stipendi fermi per 30 anni sono una delle ragioni della depressione della domanda interna. Per fortuna che abbiamo avuto numeri record sulle esportazioni.
Per un trentennio la politica ci ha detto che la priorità doveva essere la competitività. Forse si è sbagliato qualcosa?
Non c’è stata avidità di profitto delle imprese. Per essere competitivi occorre tenere bassi i costi di produzione. Siccome a queste latitudini era molto più difficile agire su altri fattori, mi riferisco alla burocrazia ipertrofica e vessatoria o all’elevatissima pressione fiscale, si è pensato di agire esclusivamente sugli stipendi. In questo modo, pur essendo cresciuto il valore del made in Italy, del nostro sistema produttivo, si è impoverito il Paese. Gli studenti che non riescono a pagare l’affitto sono soltanto una parte della crisi.
La crescita stentata, intanto, penalizza soprattutto i giovani…
Prima c’era l’immagine che chi viveva in maggiori condizioni di disagio erano gli anziani. Nell’ultimo trentennio, invece, si è invertito il meccanismo. I giovani professionisti, le partite Iva, quelli che non sono entrati nell’ingranaggio del lavoro dipendente, sono i nuovi portatori di disagio.
Mente, quindi, chi parla della “migliore generazione di sempre”?
Assolutamente no! Questa generazione poco ascoltata è quella più istruita di sempre. Non abbiamo mai avuto un tasso di laureati così alto. È quella che si approccia meglio all’universo digitale, più aperta alla globalità. Il problema è che la generazione di sempre è capitata nel momento sbagliato.
A cosa si riferisce?
Alla promessa, sempre mantenuta, per cui i figli sarebbero stati meglio dei padri. Ora non viene più mantenuta. Un patto non scritto si è interrotto. Siamo nella stagione in cui l’ascensore sociale si è inceppato. La prospettiva di una quasi matematica possibilità di salire ai piani alti della scala sociale, di andare incontro a un destino di miglioramento delle condizioni economiche, occupazionali e di benessere materiali, non esiste più. La condizione di forte incertezza, fissata nella società, riguarda appunto le prospettive future. L’invecchiamento della popolazione e il problema della denatalità, intanto, porteranno a un ulteriore impoverimento della base produttiva del Paese. Secondo l’Eurostat, nel 2050 avremo perso 4,9 milioni di abitanti, riduzione tutta concentrata sulla popolazione attiva.
Se ci saranno meno persone non dovrebbero guadagnare di più?
Con la riduzione della popolazione si va incontro a una contrazione della capacità produttiva, mettendo così a rischio la sostenibilità della spesa sociale, del debito pubblico. Quasi una deflazione delle aspettative.
Cosa può fare la politica?
La politica deve prestare pià attenzione ai giovani, a quell’energia inespressa. Servirebbero politiche adatte a valorizzarla. Non è un caso che ogni tanto rispunta fuori l’idea di abbassare l’età per accedere al voto. L’ultimo è stato Letta. Il voto dovrebbe essere ponderato all’aspettativa di vita residua. Il peso di un ventenne che ha di fronte a sé, in media, settanta anni di vita dovrebbe valere di più di quello di un ottantenne che ne ha dieci. La generazione migliore di sempre potrebbe dare un contributo fondamentale. Viene, invece, tenuta ai margini.
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