di LINDA DE ANGELIS*
È stato scagionato il direttore di un museo capitolino accusato di aver molestato una dipendente durante l’orario di lavoro. A pochi giorni dalla impugnazione della sentenza in cui un ausiliario scolastico di Roma è stato in prima istanza assolto dal reato di violenza per la brevità del palpeggiamento compiuto ai danni di una quindicenne, è stata in questi giorni impugnata dalla Procura anche questa seconda sentenza.
La vicenda ha coinvolto una ragazza di vent’anni, neoassunta in un museo della Capitale all’epoca dei fatti, secondo la quale il direttore l’avrebbe molestata in diverse occasioni, palpeggiandola e pronunciando contestualmente frasi dall’esplicito contenuto sessuale. Al di là degli aspetti processuali legati alla raccolta e alla valutazione delle prove valide a configurare il reato in capo all’imputato, nel dispositivo della sentenza riportato dagli organi di stampa si legge «non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente».
Non intendendo, per competenza, entrare nel merito della decisione presa dal giudice, tenendo anche presente che la sentenza non è stata pubblicata, non si comprende da un punto di vista clinico, da queste poche righe, la logicità delle deduzioni formulate in tale motivazione.
Se anche fosse vera la mancata accettazione del peso corporeo da parte di questa giovane donna, resta da comprendere da un punto di vista clinico in che modo i suoi presunti “complessi di natura psicologica (segnatamente il peso)” l’abbiano “inconsciamente” indotta a ritenersi vittima di molestie sessuali agite da qualcuno che, semmai in maniera inopportuna, stava di fatto solo scherzando.
Secondo quale approccio e modalità clinici è stato ipotizzato un nesso causale tra la mancata accettazione della propria immagine corporea e la distorsione dei significati attribuibili ai comportamenti altrui fino al punto di sentirsi infondatamente aggrediti e abusati?
Restando in attesa anche per questa vicenda degli esiti dell’impugnazione da parte della Procura, la riflessione è inevitabilmente sul concetto di “vittimizzazione secondaria”, con il quale ci si riferisce alla vittimizzazione che non si verifica come primaria e diretta conseguenza dell’atto subìto, bensì attraverso le conseguenze negative cui la vittima è esposta successivamente. Tali conseguenze comportano un ulteriore aggravio della sofferenza nella vittima, come quando, nell’ambito delle vicende giudiziarie, si trovi a dover rivivere l’evento traumatico in una nuova esposizione dei fatti, o come quando ne venga minimizzata e svalutata la portata del vissuto traumatico attribuendo ad esempio una natura scherzosa e goliardica alla condotta di un abusante.
Le ripercussioni sul piano psicologico della vittimizzazione secondaria possono essere devastanti sulla psiche e sulla vita della persona offesa e perciò si sta imponendo la sempre maggiore attenzione circa gli strumenti volti alla tutela delle vittime e della loro salute mentale.
*Psicologa clinica