La tragedia di Ramy è il risultato di una fuga in flagranza di reato
Già li chiamano assassini e i magistrati valutano l’ipotesi di portarli alla sbarra come tali. Sono i carabinieri che si sono trovati, loro malgrado, a dover gestire il caso Ramy, il ragazzo di origini egiziane morto il 24 novembre scorso a Milano in un incidente con lo scooter guidato da un amico. Quella tragedia è il risultato di un atto criminale: i due giovani del Corvetto, quella notte, non si erano fermati all’alt e i militari erano stati costretti a dare vita all’intervento. Non sapevano chi fosse a bordo di quel motoveicolo di grossa cilindrata: potevano essere due terroristi, due rapinatori, chiunque. Né immaginavano i motivi della fuga, diventata in quel momento flagranza di reato, in quanto non fermarsi a un posto di blocco configura l’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale, che prevede l’arresto. Insomma, fare o meno l’inseguimento non è una scelta dei singoli operatori, ma un ordine di servizio al quale gli operatori di polizia non possono sottrarsi. Ebbene, tre gazzelle dei carabinieri tentano di fermare i due fuggitivi, che seminano il terrore sfrecciando pericolosamente, e anche contromano, per le vie del centro di Milano. Venti minuti di ordinaria follia, durante i quali i due ragazzi sullo scooter avrebbero potuto investire pedoni e causare gravi incidenti. “Chiudilo, chiudilo”, si sente nelle comunicazioni alla radio dei militari, mentre una gazzella tocca leggermente lo scooter, senza esito. “Non è caduto”, dice teso uno dei carabinieri, mentre i due giovani riprendono velocità. E il video finale, con Ramy che perde il casco passando su un dosso e poco dopo la gazzella e lo scooter che finiscono sul marciapiedi, dove l’egiziano viene soccorso da uno dei militari, che tenta la rianimazione, ma senza risultati. La morte di Ramy ha scatenato l’inferno al Corvetto, messo a ferro e fuoco da quei maranza di seconda generazione che fin da subito accusavano le forze dell’ordine di aver ucciso Ramy. I video sono al vaglio dei periti, che stanno effettuando la consulenza tecnica per accertare se nel momento cruciale ci sia stato il contatto fatale tra la gazzella e lo scooterone. Ma intanto, da un mese e mezzo, quei carabinieri sono nel mirino di una certa sinistra, che delira sull’eccesso dell’intervento, pontificando perfino sulla possibilità di lasciarli andare, che quell’inseguimento non fosse necessario, tanto bastava prendere la targa, come se in Italia di veicoli rubati non ce ne siano fin troppi. Senza contare che l’allerta attentati è stata innalzata in tutta Europa e col senno del poi è facile dire che erano solo due ragazzi, non dei pericolosi jihadisti. Propaganda politica, che genera l’odio a cui le forze dell’ordine ormai sono abituati da tempo, al punto da essere diventati bersagli da colpire nelle manifestazioni della piazza chiamata alla rivolta sociale. E ripercussioni giudiziarie, che il minimo che può capitare è un’indagine per eccesso di difesa. Ma qui siamo troppo oltre, perché i carabinieri che hanno fatto il proprio lavoro contro chi non si è fermato all’alt, partendo all’inseguimento mentre in Paesi come gli Stati Uniti in questi casi si spara, ora rischiano di dover rispondere della terribile accusa di omicidio volontario. Insomma, il magistrato gli contesterebbe di aver voluto coscientemente uccidere Ramy. Che se non altro Luciano Masini, il carabiniere che ha sparato e ucciso l’extracomunitario intento ad accoltellare persone inermi nelle vie di Rimini, deve soltanto difendersi dall’accusa di eccesso colposo di legittima difesa. Una schiera di avvocati per difendere chi ci difende, rischiando la vita per stipendi inadeguati, parte dei quali da devolvere ai legali, soltanto per aver fatto il proprio lavoro. Almeno finché la corda non si spezzerà e magari qualche agente deciderà di girarsi dall’altra parte, mentre viene commesso un crimine. A quel punto il fallimento dello Stato sarà davvero compiuto. È forse per questo, ieri la premier Giorgia Meloni, parlando del caso Masini, ha sottolineato che il carabiniere “ha fatto il suo lavoro, penso che ci dobbiamo porre il problema che spesso le forze dell’ordine temano di dover fare bene il loro lavoro, rischiando il calvario giudiziario”. E allora “penso che vada fatto un approfondimento sulle norme, per capire come porre rimedio a queste situazioni”, ha concluso.
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