Intervista a Francesco Petrelli: “La separazione delle carriere in magistratura raddrizza una bizzarra anomalia”
Le annunciate proteste dell’Anm contro la riforma della Giustizia, oltre a scatenare forti polemiche, aprono allo scontro istituzionale tra magistratura e politica. Ne è convinta l’Unione delle Camera Penali evidenziando il rischio che simili iniziative rischiano “di alterare ancora una volta i necessari equilibri fra i poteri dello Stato”. Ne abbiamo parlato con il presidente della Giunta dell’Ucpi, Francesco Petrelli.
È normale che parte della magistratura, uno dei poteri dello Stato, protesti contro governo e Parlamento?
“Non è francamente la prima volta che Anm decide di porre in essere delle manifestazioni di protesta anche con modalità eclatanti, lo abbiamo già visto in altre occasioni. Non c’è dubbio che la magistratura sia legittimata ad esprimere la propria opinione sulle riforme, sulle iniziative legislative del governo o del Parlamento. Ma sarebbe bene che queste opinioni venissero espresse nelle sedi istituzionali e riferite a contenuti esclusivamente tecnici. Qui, con riferimento alla separazione delle carriere, si assiste ad una politicizzazione dell’iniziativa che, da un lato, rischia di mettere a repentaglio il principio fondamentale di uno stato liberale democratico qual è quello della separazione dei poteri tra chi applica le leggi e alle leggi è soggetto e chi invece le scrive. Ma l’altro rischio, altrettanto grave, è che queste azioni dichiaratamente politiche, queste manifestazioni così clamorose di dissenso, squilibrino anche l’immagine di giudici e pubblici ministeri che amministrano la giustizia modificando la percezione che i cittadini hanno del magistrato come soggetto equilibrato ed imparziale che si tiene a distanza dalla turbolenza dei conflitti politici. Questo forse è il rischio più grave che si corre”.
Possibile non rendersene conto?
“Questo rischio è stato avvertito anche all’interno della magistratura. Da più parti, nell’ambito della discussione che ha anticipato la deliberazione dell’astensione del 27 febbraio e le modalità con le quali si intende inscenare la protesta in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, è emerso il dato che simili iniziative sottraggono legittimazione alla intera giurisdizione. È prevalsa, invece, l’idea della radicalizzazione dello scontro e questo è un dato oggettivo che non possiamo che registrare con un qualche rammarico”.
Perché questo sciopero è più grave di altri?
“È la prima volta che accade allorché la posta in gioco è quella di una riforma costituzionale importante che, tra l’altro, sarà inevitabilmente giudicata dai cittadini i quali diranno che tipo di assetto costituzionale vorranno per la magistratura, che tipo di processo e che tipo di giudice, perché ci si dimentica che nell’articolo 111 della Costituzione oramai da molti anni c’è scritto che il processo si svolge davanti a un giudice terzo ed imparziale. Giudice imparziale è semplice spiegarlo, è quello che è disinteressato rispetto all’oggetto del processo. La terzietà è una cosa diversa, significa che sotto il profilo ordinamentale il giudice svolge una professione diversa da quella del pubblico ministero. In un processo accusatorio, quello che è stato adottato nel nostro paese, è un’anomalia che il pubblico ministero, che integra l’accusa, e il giudice, che deve essere l’arbitro del processo, sostanzialmente indossino la stessa maglia, frequentino gli stessi spogliatoi, sedano sulla stessa panchina, insomma condividono tutto”.
Quindi la riforma pone rimedio a un’incongruenza?
“In tutti i paesi dove vige un sistema accusatorio le carriere di giudici e pubblici ministeri sono separate. Ci dobbiamo meravigliare che questo ancora non sia stato fatto in Italia. La nostra non è un’avventura proiettata verso un futuro incerto, è il recupero di un ritardo inammissibile. Stiamo solo raddrizzando un sistema portatore di una bizzarra anomalia. Questo lo diceva Vassalli già quando il suo codice nel 1988 venne varato dal Parlamento. Lo aveva già detto e compreso perfettamente lo stesso Giovanni Falcone. Entrambi coglievano questa verità: un codice accusatorio presuppone una distinzione di carriere tra chi accusa e chi giudica. È una verità intuitiva”.
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