La scultura di Jackowski vibra a Milano con “Il cuore del mare”
La scultura di Michał Jackowski a Milano
Nel catastrofico impatto con il muro di gomma della tarda modernità novecentesca, che ha seminato “distruzione” e sconfinamento in tutti i campi della creatività umana, che hanno dovuto darsi un nuovo status e un nuovo ruolo, più della pittura è stata la scultura a subire i colpi della negazione di tutta la sua storia, dovendosi inventare tutto, compreso il nome, irrimediabilmente “compromesso” con la simbolicità, la sacralità, la monumentalistica, trovandosi nuda e cruda ad attraversare avanguardie e innovazioni, che ne chiedevano una nuova identità, fenomeno attenuato negativamente da fascismi e comunismi, che ne hanno ulteriormente distorto il campo di rappresentazione e di presenza nello spazio architettonico e urbano.
La scultura di Michał Jackowski è il racconto di una discontinuità. Testimonia che non c’è un percorso della verità nella storia e che la storia degli uomini è storia di imprevedibilità, ineffabilità, in cui accadono cose che non si pensava potessero accadere e invece ne accadono altre assolutamente imprevedibili, perché non esiste nel suo ambito, nel suo cangiante alveo, non esiste una separazione rigida per segmenti, non esiste una storia dello stile, del gusto, della libertà.
In lui, tradizione ed innovazione si fondono fino ad ampliare l’orizzonte linguistico della scultura che, dopo l’esaurirsi del monumentalismo, ha aperto una stagione di architetturalità, adeguate alle aspettative di una modernità avanzata e di una post modernità sempre più invadente, che sta riposizionando architettura e urbanistica e con essa, il modo stesso dell’arte, non decorativa, non da tavolo, ma da interno, di stare in mezzo a noi.
La sua scultura, specchio estetico dell’umanità, è soggetto-oggetto, nel senso che vive all’interno dell’opera, come in un secretum, mostrando vera spontaneità che è quella dell’essere con sé stessi, del piacersi, del guardarsi, dell’immaginarsi, ma anche la spettacolarità del piacere, del guardare, dell’immaginare, in una dialettica, che è della natura, che è della cultura, in un limpido, in un torbido, di una trama combinatoria che prevede scampo, che prevede riparo, facendo parlare il respiro, il calore, l’assopimento, come regno, come voluttà.
Incursioni nella materia, che sono elaborazioni di pose, classiche, romantiche, post moderne, che inclinano, al rituale, allo psicologico, al sex appeal, in uno sconfinamento che tende a corporalizzare anche l’atmosfera che circonda il marmo come essenzialità, da definire e ridefinire, continuamente, dai volti, dalle braccia, dalle mani, tra un consolidato senso comune della bellezza e un’apertura alle passionalità del sublime, come indefinito, sconosciuto, che è dell’estremamente grande, dell’invisibilmente piccolo. Tutti atteggiamenti umanistici, che non badano all’altro da sé, in un narcisismo che ormai, finisce per essere un automatismo da sogno: ma è possibile la carezza, è possibile la poesia, di tutto ciò che vediamo.
Jackowski presenta il suo universo immaginario, fatto di figure umane, mitologiche, giochi formali e manipolatori, che caratterizzano il suo modo di stare, da primitivo in questa modernità avanzata, restaurando i misteri dell’antropologia, sulle ceneri della necessaria spiegazione di tutto, in una ermeneutica che custodisce, per sempre la cifra nascosta. Il gioco si chiude, ma subito dopo, ricomincia.
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