Torino

La scomparsa di Gian Mesturino, un autentico uomo di teatro

di Redazione -


La prima immagine, forse un po’ sfocata, che ho di Gian Mesturino è un’immagine di teatro, lui sul fondo del palcoscenico del Carignano nelle vesti di un “soldato” – recitava così la distribuzione dei ruoli -, oltre la fitta rete dei molti attori che riempivano “La devozione alla Croce” di Calderon de la Barca che Gianfranco De Bosio aveva messo in scena per la stagione dello Stabile torinese. Quella foto può essere sfocata perché sono trascorsi oltre cinquantasette anni, era l’inizio di ottobre del 1967, nelle decadi che sono seguite abbiamo parlato di quello che doveva essere stato il suo esordio, degli incidenti che avevano accompagnato quella messinscena e delle sostituzioni, delle presenze di Pani e di un grande Mauri e di Adriana Asti. Lontanissimi ricordi che chissà chi ha ancora voglia di coltivare. Debutto che forse “La devozione” non era se le cronache di Solonghello che sta nel cuore del Monferrato scrivono che all’età di cinque anni era stato assoldato in qualità di siparista nel piccolo teatro del paese. E poi, nella sfera mia più personale, un’occasione felicissima, quando poco più di quarantacinque anni – quanti conti si fanno ormai con i calendari – intervenne con Germana al mio matrimonio per cui ancora oggi lui è là, in più di una foto, dentro un album, sorridente, con altri amici del mondo teatrale torinese, sui gradini della chiesa lassù in collina. Era nato nell’agosto del ’42 Gian, era architetto e scenografo – quante scenografie avrà inventato negli studi Rai e per i cartelloni di Torino Spettacoli? -, aveva con l’amico Girolamo Angione preparato e rivisitato per i palcoscenici di oggi il repertorio di Plauto, aveva reinventato luoghi teatrali e li aveva rianimati, aveva con grande passione sin dai primi anni d’attività scommesso su testi che ambientava nella sala Valentino e nell’atrio (un “Don Cafasso” con il già scomparso Fulvio Bava) del Nuovo.

Cultore di gialli, aveva strappato i diritti di “Trappola per topi” della Christie ed era vissuto di rendita per anni, con una ineguagliabile risposta del pubblico; aveva inventato tra le mura del Gioiello, passato da sala cinematografica a teatro, gli spettacoli a lunga tenitura, intramontabili, prova tangibile quel “Forbici Follie” che festeggia in questa stagione i venticinque anni di vita e di continuo successo. Sempre con una passione ineguagliata aveva dato luogo ad appuntamenti e a rassegne e a festival, creando “Vignaledanza” e “Il gesto e l’anima”, “Isola di Pasqua” e “Natale Bimbi” e il teatro classico tra i ruderi del teatro romano di Bene Vagienna e molto altro ancora. Aveva percorso l’insegnamento e ancora tirava tardi – “la mia giornata non è ancora finita, ho ancora da vedermi un po’ di cose della scuola” lo sentivi ancora ripetere di recente, quando lo incrociavi al Gioiello o all’Alfieri, seduto nelle ultime file a “controllare” un suo spettacolo ospite di realtà che non gli appartenevano più da quando, da due stagioni, aveva traghettato le sale nelle mani del Frabrizio Di Biase Entertainement, o semplicemente da spettatore, buon conoscitore, attento, insaziabile di nuove prove, “vittima” di quel Liceo Coreutico di corso Moncalieri che ancora presiedeva, “ma il merito di tutto quel che abbiamo costruito andrà sempre a Germana, io venivo sempre dopo di lei”. Ma non era vero, Gian non si risparmiava, negli undici anni dalla scomparsa della moglie non aveva mollato, perché doveva essere così, perché il teatro era la sua casa e il pubblico era il suo pubblico: per cui se salivi gli scalini che danno sulla platea dell’Erba, inconfondibile gioiello di famiglia, te lo trovavi lì, con un “benvenuti” sulle labbra a staccarti premuroso il biglietto. Oppure sapevi che contento varcava la quarta parete per rivestire gli abiti poveri del “Gelindo” – come aveva ancora fatto il 22 dicembre scorso -, un testo che lui stesso aveva scritto attingendo dal repertorio popolare. Questo era Gian e molto altro ancora, in una rete di ricordi che nel momento della scomparsa si affollano alla mente.

Non si era mai trincerato dietro quel bianco barbone da vecchio patriarca, non era un uomo per il quale era sufficiente stare a guardare, si era sporcato le mani e gli piaceva farlo, aveva trasmesso passione e cuore e intelligenza, aveva dato casa a Piero Nuti e ad Adriana Innocenti, si era circondato di validi collaboratori, soprattutto a un manipolo di giovani aveva dato tutto l’entusiasmo di cui era capace. Anche a loro spetterà continuare. Soprattutto a Irene, che oggi dovrà essere la vera e infaticabile anima della conduzione di Torino Spettacoli, a Miriam che continuerà a viaggiare per lo stivale rappresentando testi e raccogliendo successi, ad Eva, più appartata, nella sua carriera di medico e altresì di pittrice. Il roisario sarà recitato lunedì alle 18,30 nella chiesa Madonna Addolorata al Pilonetto, i funerali nella medesima chiesa martedì alle 10.

Elio Rabbione (ilTorinese.it)


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