Cultura & Spettacolo

La pittura di Filadelfo Simi Parigi, Firenze e la Versilia

di Nicola Santini -


Filadelfo Simi. Parigi, Firenze e la Versilia. Il viaggio della vita è il titolo della mostra che la Città di Seravezza, la Fondazione Terre Medicee, e la Comunità di Levigliani dedicano al grande maestro dell’800 italiano nel centenario dalla morte – Filadelfo Simi nasce a Levigliani l’11 febbraio 1849 e muore a Firenze il 5 gennaio 1923 –.
La rassegna, composta da oltre cinquanta opere allestite nelle tre sedi della mostra: le Scuderie Granducali e Palazzo Rossetti a Seravezza e Palazzo Simi a Levigliani, intende presentare il pittore stazzemese sotto una nuova luce.
A cinquantacinque anni dalla Mostra Fiorentina di Palazzo Strozzi, curata da Pietro Annigoni e a trentotto da quella al Mediceo di Seravezza, curata da Giampaolo Daddi, la mostra attuale vuole apportare nuove conoscenze sul Simi, in particolare sul suo periodo francese, sui suoi legami con il mondo del marmo e della scultura e sui suoi periodi di soggiorno in Versilia, anche alla luce dell’analisi di quanto contenuto in termini di immagini e documenti, nell’Archivio Simi.
Il riconoscimento delle sue straordinarie capacità pittoriche e grafiche, Simi, lo ricevette già in vita con numerosi premi e incarichi prestigiosi. Mentre i suoi insegnamenti furono di riferimento per molti artisti, nazionali e internazionali. Lo Studio fiorentino di Via dei Tintori, che la figlia Nera eredito, è stato attivo fino al 1987, qui si insegnava il metodo Jerome, che Filadelfo Simi aveva appreso negli anni del suo soggiorno parigino.
Nella produzione di Filadelfo il tema degli affetti e della vita familiare ha sempre avuto un importante risalto. L’omaggio che rese ai genitori con la stesura del famoso dittico, presente in mostra, trova eco negli innumerevoli ritratti della moglie dei figli, nonché nelle opere dell’ultimo periodo, dove le scene di vita familiare quotidiana diventano un tema ricorrente.
Il dittico dei genitori risale al 1886, quando Simi aveva 26 anni, e attraverso la posa solenne della madre, e quella più pragmatica del padre, riesce ad andare ben oltre la perfezione tecnica della tela conferendo ai soggetti un alone di spiritualità. Volle, rifacendosi al dittico dei Duchi di Urbino di Piero della Francesca, riproporre una “coppia regale”, legata in un’unica cornice. Fu Pietro Annigoni a dividere il dittico in occasione della mostra del 1958, presentando le opere separatamente: la madre Angiolina “composta in una solennità da quattrocentista è percorsa da una commovente affettuosità, con quelle mani che paiono rendere palese, da parte del Pittore, il desiderio di baciarle con venerazione”, come ebbe a scrivere Annigoni. Analogamente, le mani sono il fulcro del ritratto del padre: “Le più belle mani di tutta la pittura dell’800”, come ebbe a definirle Riccardo Bremer, “sono a sistemare un ingranaggio, una ruota dentata”.


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