Editoriale

LA PERNACCHIA AL QUIRINALE

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


Il prossimo che mi parla di Europa unita rido fino a domani. A parte il riarmo che ci costerà una palata di miliardi, che pagherà la gente che lavora e già stenta ad arrivare a fine mese, mentre Russia e Stati Uniti alzano il livello dello scontro a planetario giocando con i droni e con l’opinione pubblica, capita pure di sentire un gran pernacchione all’Italia nel giorno in cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiede un rilancio dello spirito fondativo dell’Unione. Un bel pernacchione che fa tremare il tavolo su cui fu firmato il trattato del Quirinale e che viene da tale ministro francerse Darmanin, o meglio si scrive Darmanin e si legge quell’Emanuel Macron paladino dei cosiddetti centristi moderati, che ha ridotto Parigi in uno stato di guerra civile permanente. E che se non è in grado di gestire una riformetta delle pensioni da due anni in più di lavoro, dall’Italia che ne ha gestiti sette e non è ancora finita dovrebbe venire a prendere lezioni e non certo a darlo.
Ma si sa che da quando al governo c’è la destra chiunque può sparare sul pianista. Per cui se questo signore sputa sull’Italia, che è l’unico Paese che non ha mai tirato il culo indietro sull’accoglienza e che sarà anche dilaniato dalle polemiche ma siccome la geografia e la storia di questo continente l’hanno piazzato a poche miglia dalla cosa africana s’è sempre preso in carico tutto, sta sicuro che nessuno si alzerà a dire di starsene zitti.
Tutti in ordine sparso, dunque. Come ormai da anni. Come direbbe Vasco, ognuno con il suo viaggio e ognuno di verso. Tranne che quando c’è da spendere i soldi. Lì l’Europa parla a una voce sola, quella dei signori delle armi, che dopo avere svuotato i vecchi arsenali per aiutare l’Ucraina di fatto non a finire la guerra ma a continuarla in eterno, arrivano a battere cassa nelle case degli italiani, che dovranno sborsare di tasca loro miliardi di euro all’anno per riempire quegli stessi arsenali di nuove armi. Ci tengono talmente tanto alla loro ferraglia di morte, che il Pnrr che fino a ieri non si poteva toccare, che guai a chi solo parlava di rinvio o di modifica ai sacri testi scritti su pergamena dal governo dei migliori, oggi si può tranquillamente rifare pur di usare una parte dei debiti di cui l’Europa ci ha dotati per comprare a quella stessa Europa che ci lucra le armi con cui riempire i magazzini che abbiamo svuotato per la guerra.
Una guerra che ormai si gioca da continente a continente, come in un Risiko tragicamente vero, fatto di spie e di strategia della tensione, di droni e di minacce atomiche, di insulti fra capi di stato e minacce di morte e di attentati da film hollywoodiano. Un Risiko giocato fra Washington e Mosca, fra Cremlino e Casa Bianca, con l’osservatore speciale cinese che da Pechino conta i miliardi di Yuan con cui sempre più Paesi siglano grandi operazioni che fino a poco tempo fa era tabù anche solo pensare di non fare in dollari. E che invece oggi si fanno eccome. Perfino il Bangladesh paga in Yuanj le centrali che compra dai russi. Andate a controllare.
In una situazione del genere c’è da tirare un sospiro di sollievo che sia arrivato il generale Haftar a Roma. Il vero capo della seconda Libia,la Cirenaica, Bengasi, distrutta dalla Jihad, quella che gestisce petrolio, gas e migrazioni dall’Africa ma con cui i governi dell’Occidente non parlano perché loro parlano solo di Tripoli e con il governo che hanno insediato. Mentre in Cirenaica si fa sempre più forte il legame con la Russia e con la parte del mondo che guarda alla Cina come futura superpotenza. Perché noi siamo sempre pronti a fare quella cosa là, pur di fare un dispetto alla moglie.

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