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La lezione del Vajont

di Gianluca Pascutti -


La lezione del Vajont

di GIANLUCA PASCUTTI

Alla fine degli anni 50 l’Italia era nel pieno boom economico, nel 1957 la SADE (Società Adriatica di elettricità) apre il cantiere della più grande diga d’Europa, un’opera ingegneristica di enorme portata inaugurata due anni dopo nel 1959, la diga del Vajont.
Prende il nome da un affluente del fiume Piave, nei pressi del comune di Longarone, in provincia di Belluno, un fiume che negli anni ha scavato una profonda gola detta del Vajont tra il monte Toc e il monte Salta. Durante la fase di realizzazione sono stati sottovalutati gli enormi rischi dettati dalla franosità del Toc, una montagna a ridosso del bacino d’invaso, nel lato sinistro della diga, già segnata da un piano di slittamento molto profondo, di origine preistorica ma completamente sedimentato e della alta sismicità del territorio.

Nonostante le numerose segnalazioni di rischio, paventate da chi quell’area conosceva bene e le denunce dei cittadini, l’azienda per anni ha ignorato e sottovalutato le varie criticità, procedendo imperterrita con i lavori. Il 9 ottobre del 1963 alle ore 22 e 39 franano dal monte Toc 260 milioni di metri cubi di terra e sassi a una velocità tra gli 80 e i 90 km/h.
Il violento impatto con l’acqua del bacino artificiale sottostante provocò un vero e proprio tsunami, un’onda di 230 metri d’altezza che scavalcò la diga lasciandola intatta. Metà dell’acqua si incanalò nella gola riversandosi poco dopo su Longarone, spazzando letteralmente via l’intera cittadina. Furono colpiti anche Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Codissago e Castellavazzo. L’altra parte dell’onda risalì la valle colpendo i paesi friulani di Erto e Casso e altri piccoli borghi. L’onda della morte provocò quasi 2000 vittime e cambiò per sempre la geografia dei luoghi colpiti. Rase al suolo interi paesi, scheggiando le montagne, mentre la frana lasciò sul monte Toc un’ampia cicatrice a forma di M ancora ben visibile.

Scattò immediatamente una commissione d’inchiesta, l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni accorse nella valle del Piave, sorvolando il luogo del disastro con un elicottero. Chi era con lui testimoniò che non riuscì a trattenere le lacrime vedendo quel paesaggio surreale devastato dalla potenza dell’acqua. Lunghissimi furono gli iter processuali, il giudice istruttore di Belluno Mario Fabbri, nel 1968 depositò una prima sentenza contro il direttore generale delle costruzioni della SADE Biadene, l’unico tra gli undici condannati a fare un periodo di detenzione carceraria. Il primo grado di processo si tenne presso il tribunale dell’Aquila, l’anno successivo furono emesse solamente tre condanne a sei anni di reclusione di cui due subito condonati. Nel 1970 in Appello furono condannati solo Alberico Biadene e una seconda persona.

Nel 1971 la Cassazione confermò la sentenza, l’unico a scontare la pena fu Biadene condannato a cinque anni di reclusione di cui tre condonati. Negli anni successivi iniziò il non meno travagliato processo in sede civile per i danni subiti. La sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno arrivò solamente nel 1997. La corte d’appello di Venezia confermò la prima condanna per la Montedison (la società all’interno della quale nel frattempo era entrata la SADE) a risarcire il Comune di Longarone per i danni morali e materiali subiti. L’ultimo atto processuale si concluse con la condanna all’Enel, l’attuale proprietaria della diga del Vajont, a risarcire i comuni friulani di Erto e Casso.

Nonostante siano passati 60 anni, quando si arriva nella valle si è colti da una sequenza di emozioni, sembra tutto così surreale. Guardando l’immensa diga ci si chiede cosa possano aver vissuto le persone quel maledetto 9 ottobre e cosa ancor oggi si portano dentro i sopravvissuti. La sensazione è quella dell’incredulità, osservando il paesaggio in un rispettoso silenzio ci si chiede come sia stato possibile provocare tutto questo.


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