La guerra di Giorgia agli extraprofitti
GIORGIA MELONI
Tanto rumore per nulla: la ventilata Apocalisse bancaria, insorta a seguito della mossa (a sorpresa) del governo di tassarne gli extraprofitti, è già rientrata. Ieri, alla Borsa di Milano, i titoli degli istituti di credito, che avevano registrato perdite (anche) a doppia cifra, sono sostanzialmente rientrati dal tonfo. Nel linguaggio della finanzia vuol dire che le banche, dopo aver incassato miliardi grazie agli aumenti dei tassi partoriti dalla Bce, hanno anche incassato il colpo e lo stanno già digerendo. A lenire la tristezza dei manager, ieri mattina, è arrivata la carezza di Giorgetti: il Mef ha tranquillizzato i banchieri. Ci sarà un tetto alla bank-tax: non più dello 0,1% totale dell’attivo e non ci saranno conseguenze di sorta per quegli istituti che si sono adeguati alle indicazioni (risalenti a febbraio!) di Bankitalia e relative ad alzare, almeno un po’, il margine di interessi attivi sui conti corrente. Ma nel pomeriggio, Giorgia Meloni ha ripreso l’agendina con i suoi “appunti” e si è rimessa davanti alla telecamerina di Facebook. “Stiamo vivendo una fase complicata, all’inflazione che si registra in Europa, la Bce ha risposto con un intervento del quale possiamo anche discutere. Ma in questa situazione difficile è fondamentale che il sistema bancario si comporti nel modo più corretto possibile”. La bank tax “non è una tassa su un margine legittimo ma su un margine ingiusto”, ha tuonato la premier che ha promesso: “Con le risorse recuperate aiuteremo a finanziare i provvedimenti per sostenere famiglie e imprese di fronte alle difficoltà legate all’alto costo del denaro che non permettono spesso neanche di affrontare serenamente le spese di un mutuo”.
Giorgia Meloni ha messo il dito nella piaga o, se volete, ha ingaggiato battaglia contro uno dei capisaldi del capitalismo all’italiana. Che, non lo scopriamo certo noi, è lontano le mille miglia dai modelli anglosassoni o renani ma si mantiene abbarbicato a una sorta di corporativismo 3.0. La premier sa bene che ha innescato un terremoto. Ci sono parole che, una volta pronunciate, scatenato reazioni. Una di queste è “extraprofitti”. Oggi si parla di banche, ma ieri se n’è parlato a proposito di compagnie energetiche. Non è un caso, perciò, che E domani, chissà, si potrebbe farlo andando a spulciare i conti delle grandi aziende di altri comparti economici. Magari quello delle compagnie aeree che definire low cost, più che una costatazione della realtà è un esercizio di stile. È ovvio che si giochi in difesa, è altrettanto ovvio che si inneschi un mare di polemiche. Dirette e indirette. Nel dl Asset, infatti, il governo ha intimato di “calmare” l’algoritmo che, a seconda della richiesta cambia i prezzi, “calmierando” nei fatti il costo dei biglietti. Ed è per questo che Eddie Wilson, Ceo di Ryanair, ha utilizzato parole a dir poco scomposte all’indirizzo del governo, definendo il provvedimento “ridicolo e illegale”. “Non ci sono algoritmi, non sappiamo chi compra in nostri biglietti a 20, 30 o 40 euro. Non facciamo profili. Come potremmo? Penso che queste persone che lo dicono hanno guardato troppo Netflix e che non vivano nel mondo reale”. Sarà, ma chi ha acquistato un biglietto, di recente, s’è reso ben conto che gli aumenti ci sono stati, eccome.
Un altro colpo, dal governo, è arrivato a una corporazione più “nostrana” ma non per questo meno agguerrita. Si tratta dei taxi. L’esecutivo ha deciso di offrire ai Comuni la possibilità di concedere fino al 20% di licenze in più. Il problema è che queste hanno un costo. Stimato in una somma tra i 100-120mila euro. Se ne spuntassero di nuove, e tante, fatalmente il valore delle concessioni registrerebbe un tonfo. Insomma, nessuno ci sta a perderci. Ma il problema è che, anche in questo caso, come in quello degli aerei e delle banche, a pagare è sempre Pantalone. Che si trova costretto, magari dopo aver acquistato a prezzi rincarati un biglietto aereo per una vacanza finanziata con un piccolo prestito con tassi salatissimi, ad attendere ore per una corsa, altrettanto salata, in taxi.
La polemica punta a colpire nell’orgoglio quell’ampio pezzo di maggioranza che si riconosce nei valori liberali e nello slogan del “meno tasse”. Possibile che siano proprio loro a imporre nuovi balzelli? Sì. E una “pezza” d’appoggio culturale e filosofica arriva addirittura dai bancari. Al segretario generale Fabi, Lando Maria Sileoni, “la tassazione sugli extraprofitti delle banche non mi sembra un provvedimento antiliberale per un semplice motivo: gli extraprofitti sono stati ottenuti innalzando i tassi sui prestiti, a seguito degli interventi della Bce e lasciando invariati gli interessi sui depositi prossimi allo zero. Non penso che questo escamotage delle banche possa essere definito attività d’impresa che, per sua natura, prevede un rischio che in questa circostanza non è esistito”. È stato praticamente un “regalo” o se preferite un effetto collaterale, questa vicenda degli extraprofitti. Il guaio è che le banche stanno cambiando: “L’intermediazione classica del settore bancario è saltata da tempo, l’investimento classico del settore bancario, come abbiamo sempre evidenziato, non esiste più e sono altre le forme finanziarie di investimento che generano commissioni e utili per le banche. Questo nuovo modello di attività bancaria andrebbe sempre analizzato dalla politica in profondità, non soltanto quando servono entrate economiche, ma quando talvolta viene meno il ruolo sociale che dovrebbe realizzare qualsiasi banca. Mi auguro che queste somme vengano utilizzate, come preannunciato, per aiutare i più deboli con iniziative concrete e trasparenti”.
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