“La donna della domenica” uno spaccato tutto torinese
La mostra al Circolo del Design fino al 9 maggio dedicata al film tratto dal romanzo del duo torinese F&L
“Il martedì di giugno in cui fu assassinato, l’architetto Garrone guardò l’ora molte volte.” Ricordate? E poi si andava (era il 1972, all’uscita del libro) a toccare con mano i luoghi in cui la premiatissima ditta Fruttero&Lucentini (classe 1926 e classe 1920, torinesissimo il primo, romano trapiantato con moglie francese il secondo, un’amicizia forte ed eterna) aveva ambientato i tanti episodi del romanzo, scoprendo magari che lo studio – “quella chiavica della sua stanza”, dove si infierì sul poveretto con quel “coso”, “una scultura oscena in pietra”, un’altezza di 29 cm circa e un peso di chilogrammi due e mezzo – del famigerato architetto (“un fallito, un falso invalido di guerra, uno scroccone mantenuto dalla madre e dalla sorella” nell’alloggio di via Peyron, lo stigmatizzano gli autori in una sintesi del romanzo, un unico foglio dattiloscritto appena ritrovato, infilato in uno dei bloc-notes che contengono le prime stesure del romanzo, materiale in corso di riordino nell’archivio di Carlo Fruttero), sporcaccione e perenne intrallazzatore, era sì al fondo di via Mazzini ma che il civico 57 era inesistente.
E poi si andava (era il 1975, all’uscita natalizia del film, da noi la sala dello scomparso Cristallo di via Goito) a ri-toccare con mano in che modo, con l’aiuto di un’altra coppia, i navigatissimi Age&Scarpelli, il lombardo/romano Luigi Comencini avesse riscritto – con la carovana popolata di Marcello Mastroianni, Pino Caruso, Claudio Gora, Aldo Reggiani, una impareggiabile Lina Volonghi con il suo lavatoio e il suo “prato” e l’intera proprietà delle “Buone pere”, insomma il suo “Eden di val Pattonera”, allargata con gli stranieri Jean-Louis Trintignant e Jacqueline Bisset – per il cinema quelle 503 pagine dell’edizione Mondadori, parte interna di quella sovracoperta rossa di mattoni disegnata da Ferenc Pintér. “La donna della domenica” ci regalava, nella doppia veste, escursioni prima di tutto al Balôn (“This is Balôn”, avrebbe sentenziato il mattino insanguinato del sabato l’americanista Bonetto, e altresì guida più o meno da seguire per il proprio guardaroba, “uno dice: “Ha dei calzini alla Bonetto” e l’altro capisce subito come sono”, un Franco Nebbia dietro cui si nascondeva lo studioso Claudio Gorlier, prof d’Università e un tempo compagno di scuola di Fruttero), allo stabile che sta alle spalle di palazzo Lascaris ed era gli uffici del commissario e soci, a quel sedile in riva al Po su cui pensosa siede la prima vittima e a quella balconata della galleria Subalpina in cui trova ancora il tempo di mostrare ad una signora la sua lingua oscena, alle strisce pedonali di via Pietro Micca sulle quali ginocchioni Lello dichiara dinanzi ai passanti tutta le sua passione all’amante Massimo Campi, a quel cubo modernissimo d’acciaio progettato nel 1969 da Sergio Hutter e Toni Cordero che affaccia su corso Stati Uniti (dove le lettere appallottolate e buttate nel cestino lasciano trasparire quella parola “Boost’n” che avrebbe dato il via alle indagini), ben diverso dalla villa sulla collina di Mongreno che Carlo Emanuele I volle per sua figlia Margherita, una selva d’ippocastani e tigli ambientati in un progetto curato dal paesaggista britannico Russell Page, sulla metà del secolo scorso, e ai tempi di Massimo Campi luogo ideale e molto glamour per colazioni e pettegolezzi, ambiente buona e alta borghesia tutta torinese, con Anna Carla Dosio e il commissario Santamaria: per finire, nella dissoluzione dell’enigma della “cativa lavandèra”, balza in tutta fretta giù dal letto del Santamaria, nell’appartamento di corso Galileo Ferraris 75, vista monumento a re Vittorio, la bella signora (ma il lato B, assicurarono, non era quello della Bisset, per evidenti clausole di contratto) al grido di “oh, mipovradona”: e “mipovradona” si sarebbe dovuto intitolare il romanzo – “titolo che per un po’ circolò” dice oggi Carlotta Fruttero, recente autrice di “Alice ancora non lo sa”, mentre per qualche attimo chiacchiera simpaticamente in questa sera di fine marzo e cerca in una valigia piena di ricordi – se l’editore non lo avesse animosamente rifiutato, troppo torinese, troppo invendibile.
Sarà visitabile sino al 9 maggio al Circolo del Design di via San Francesco da Paola 17 (orari lunedi/venerdì dalle 14 alle 19) la mostra, che attorno al romanzo e attorno al film è costruita, “La donna della domenica: una signora città”, in collaborazione con la Fondazione Mondadori, quarto appuntamento di “Archivi d’Affetto”, dedicato “all’amore incondizionato di F&L per Torino”, progetto curato da Maurizio Cilli e Stefano Mirti. La mostra è curata da Domenico Scarpa, grande conoscitore del duo, uno sguardo a due scrittori “visionari e artigiani” e certamente “visivi”, capace di approfondire e scandagliare e trascrivere la realtà di quegli anni, una visuale viva e precisa su vizi privati e pubbliche virtù, i primi “ad affrontare uno spaccato di una città e a farne grande letteratura”. I sette anni di gestazione del romanzo, cresciuta tra Fruttero che scrive rigorosamente a biro e il collega che lo segue o lo anticipa con la macchina da scrivere (se chiedete a Carlotta se sia una favola o no che i due autori si alternassero nella scrittura dei dieci capitoli vi risponderà “sì, non sempre ma tante volte sì, poi discutevano, correggevano, anche si infervoravano, ma mai bisticci, erano piuttosto confronti”), la fila dei cinque foglietti di F. scritti in un alternarsi di biro blu e rossa, una grafia concitata, “tutto viene eseguito in velocità e con parecchie abbreviazioni, a colpi di elenchi e promemoria più che con frasi compiute”, appunti e brevi stesure che si discostano spesso da quello che poi il lettore avrà sotto gli occhi. C’era una impalcatura da costruire, c’era da dare uno sviluppo ai singoli episodi: era lì che interveniva L., “dotato di grande talento per le architetture narrative, a stendere le scalette”: in un suo foglio manoscritto, con tanto di numerazione delle pagine, il visitatore vedrà la struttura e le progressive ristrutturazioni dal secondo al sesto capitolo.
“C’è qualcosa di marcio a Taurinopoli”, titolò Marialivia Serini il suo lungo articolo sull’Espresso, 23 gennaio 1972, per sole lire 250 (“Torino – riportando parole della ‘Donna’ – è pronta a captare il male da ogni angolo della terra e la sua funzione è quella di spargerlo in giro per tutto il resto della penisola. Se uno ci fa caso, in ognuno dei flagelli che opprimono la patria ci trova sempre sotto la mano torinese. A cominciare dall’Unità Nazionale”, e via elencando, l’automobile, la radio, la televisione, gli intellettuali di sinistra…), raccogliendo saggiamente personaggi curiosità situazioni impressioni, arrivando a quella data che vedeva la parola fine alla stesura: “il romanzo è venuto su con una scaletta spietata che prevedeva fin dall’inizio come, dove, quando e perché; e il 26 agosto del ’71 sul prato vicino al canale di Loin, gli è stata messa di prepotenza la parola…”. La fine dei personaggi, della protagonista Torino fatta di poche luci e troppe ombre, delle vagonate d’ironia che sono state usate per raccontarcela, la città “lugubre e folle” con le sue piazze alla De Chirico e i suoi viali ampi e ripetitivi, “una città travestita” nelle parole di Anna Carla. L’elenco dei 17 titoli pensati prima che s’arrivasse al definitivo (“Morte per/da scultura”, poteva avere forse un certo suo sapore artistico, ma non tutta la più o meno percettibile ambiguità della “Donna della domenica”), riportato sulla controcopertina di un bloc-notes che contiene svariati episodi dei capitoli VI e VII, tentativi a penna di Fruttero sotto appunti personali e frettolose addizioni e moltiplicazioni, copertine di edizioni straniere – gli spagnoli molto prude che in luogo del fallo di pietra si trincerano dietro un indifferente pestello macchiato di sangue o l’editore di Zagabria che mostra in copertina chissà perché un signore a torso nudo e calvo che occhieggia attraverso un binocolo, pistolone infilato nella cintola -, immagini di una Torino di cinquant’anni fa, con via Garibaldi soffocata da tram e vetture, con piazza Bodoni o piazzetta Reale che rigurgitavano automobili. Una vetrina antica, come quella a cui s’affacciava lo sfacciato architetto Garrone, nella giornata di quell’ultimo martedì.
Elio Rabbione – ilTorinese.it
Nelle immagini: Jacqueline Bisset nella “Donna della domenica” di Luigi Comencini
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