Attualità

La disputa ultra decennale, la sovranità europea che dissolve quella italiana

di Redazione -


di FRANCESCO CARRARO
Nel dibattito sulla sovranità italiana e su quella europea e sul tendenziale dissolvimento della prima nella seconda – nonché sulla opportunità, o addirittura, auspicabilità di tale progetto – è stato detto molto, ma forse non tutto. In particolare, si tende ad omettere, in questa disputa ormai ultradecennale, una specifica analisi delle “prove” giuridiche del fenomeno della de-sovranizzazione degli Stati aderenti alla Ue e, in particolare, del nostro. Forse ciò è dovuto a una innegabile peculiarità del fenomeno stesso. E cioè il fatto di essersi dipanato in un lungo torno di tempo attraverso tappe successive. A distanza tale – l’una rispetto all’altra – da rendere quasi indistinguibile, o comunque difficilmente percepibile, il nesso tra le medesime e, soprattutto, il disegno complessivo che ne risulta. Prima ancora dell’esordio “ufficiale” dell’Unione, con il trattato di Maastricht del 1992, vennero create delle istituzioni extraterritoriali (cioè site fuori dal territorio italiano) e transnazionali (cioè composte da membri appartenenti alle diverse nazioni della comunità europea) in grado però di legiferare, cioè di emettere atti destinati ad avere forza di legge in Italia. Già qui ci sarebbe di che discutere e forse da noi non se ne è mai discusso abbastanza, soprattutto all’inizio. Più in particolare, il diritto esclusivo di iniziativa legislativa, in ambito europeo, è stato attribuito a un organo chiamato Commissione composto da pochissimi membri (ventisette, tanti quanti i Paesi membri della UE). Solo la Commissione ha il potere di attivare il procedimento destinato a sfociare in quei testi (i Regolamenti e le Direttive) che poi sono approvati attraverso un tortuoso iter (c.d. “trilogo”) coinvolgente anche il Consiglio dell’Unione europea e il Parlamento europeo. Già questo significa, di fatto, rinunciare a una grossissima fetta di sovranità nazionale. E ciò in barba al famoso articolo 11 della Costituzione che non consente “cessioni”, ma solo “limitazioni” di sovranità. E solo nella misura in cui ciò sia necessario “in condizioni di parità con gli altri Stati (…) ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Veniamo ora agli atti normativi di competenza della odierna Ue. Essi sono sostanzialmente di due tipi: i regolamenti e le direttive. I primi hanno efficacia diretta nel nostro territorio, così come in quello di tutti gli altri Stati membri. Le direttive, invece, hanno bisogno di essere “tradotte” dal Parlamento tramite una legge apposita o un decreto legislativo. Qui, però, cominciò fin dagli anni Settanta a porsi un problema di non scarso rilievo. Nel caso di un eventuale conflitto tra una norma europea e una norma italiana, quale doveva prevalere? Ebbene, l’organo giurisdizionale per eccellenza della Comunità europea, vale a dire la Corte di Giustizia, con sentenza del 9 marzo 1978, ci rifilò una delle prime proverbiali “bacchettate sulle dita” – a cui poi abbiamo imparato a fare il callo – affermando che “il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di disapplicare all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore”. Passarono solo pochi anni e, nel 1984, con la sentenza numero 170, la Corte Costituzionale italiana si adeguò pedissequamente ai desiderata della Comunità: le leggi italiane posteriori a un Regolamento europeo – ove in contrasto con quest’ultimo – devono essere disapplicate. Dopo di che, il nostro Paese iniziò a dotarsi di norme sempre più stringenti, e cogenti, in materia di recepimento delle “regole europee”. Addirittura, la legge numero 234 del 24 dicembre 2012 ha introdotto due nuovi strumenti per accelerare questo processo: la cosiddetta legge di delegazione europea e la legge europea. Con la prima il parlamento conferisce le dovute deleghe al governo per il recepimento delle direttive comunitarie. La seconda, invece, modifica o abroga le leggi italiane bocciate o stigmatizzate da sentenze della Corte di Giustizia della Ue o messe nel mirino dalla Commissione attraverso le procedure di infrazione. Riassumendo: non solo i nostri rappresentanti sono obbligati, nel vero senso della parola, a ratificare, agli albori dell’anno nuovo, una miriade di articoli e commi deliberati altrove per dar loro una verniciatina di italianità. Devono anche farsi carico di eliminare le vecchie leggi che abbiano incontrato il disappunto delle massime istituzioni comunitarie. Secondo un report del Dipartimento Affari Comunitari per «Il Sole 24 Ore», relativo alla produzione normativa del Parlamento e del governo nel quinquennio 2014-2018, oltre il 30 per cento delle leggi introdotte in Italia dal 2014 in poi, e a cui noi dobbiamo civile obbedienza, è stato deciso altrove. Se a tutto ciò aggiungiamo i parametri di Maastricht, l’obbligo di previa approvazione del bilancio annuale (e dei piani di emissione del debito dello Stato) da parte dei vertici di Bruxelles e l’attribuzione dell’esclusiva in materia di politica monetaria alla BCE, ce n’è più che abbastanza per affermare che il processo di cui parliamo non è solo in atto da tempo immemore. È anche, oramai, un fatto quasi compiuto. Poi, decidete voi come chiamarlo: se “recupero” di sovranità in sede più alta o se inammissibile de-sovranizzazione della Repubblica. Da come si guarda il mondo, tutto dipende.


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