Editoriale

La (dis)parità di genere

di Adolfo Spezzaferro -


“Che vinca il migliore” e “L’importante è partecipare”: due slogan, anzi due mantra olimpici noti a tutti. Gareggiare alle Olimpiadi in pieno clima di fratellanza, uguaglianza (pace no, perché non siamo nell’antica Grecia e le guerre non si interrompono): un classico, una verità quasi banale, data per scontata. Lo sport, la cui vetta assoluta sono i Giochi Olimpici è democraticissimo: si parte tutti dalla stella linea, con le stesse possibilità, vince chi è il più forte, vince il migliore. Niente di più bello, sano, edificante. Ecco, dimentichiamoci tutto questo: le Olimpiadi di Parigi, quelle iniziate con quella porcata della serata inaugurale, di una volgarità gratuita e offensiva, proseguono di male in peggio. E non perché l’organizzazione fa acqua (inquinata, come la Senna) da tutte le parti, ma perché questo è il trionfo della scorrettezza su scala globale. “Che vinca il migliore”, certo: ma come è possibile che possa vincere il migliore se da una parte abbiamo una donna e dall’altra un trans? A maggior ragione se si tratta di un incontro di pugilato. Una donna condannata ad essere presa a pugni da un trans, dunque da una donna con i muscoli, la corporatura, la forza di un maschio. Ma che Olimpiadi sono? “L’importante è partecipare”, certo: ma come si può permettere di partecipare a un atleta, l’algerina Imane Khelif, peso welter (63 chilogrammi) che biologicamente è un maschio? E soprattutto come si può permettere a questo trans di combattere contro una donna, la napoletana Angela Carini? Vogliamo dire una cosa a chi si appella alla parità di genere: qua non c’entrano niente i livelli di testosterone. Non è una questione di ormoni. Quella che manca è la parità della prestazione agonistica. La tizia in questione, dopo il test del dna che rilevò la presenza di cromosomi X e Y fu esclusa dalla finale dei Mondiali del 2023 in India. Stavolta però grazie a una supercazzola olimpica, potrà boxare contro la nostra Carini. Il punto però non è se l’incontro è regolare, se Khelif ha diritto di combattere contro una donna. Il punto è come siamo arrivati a tutto questo. In principio ci sono state le lotte per i diritti civili della comunità gay, conquiste sociali sacrosante. La bandiera arcobaleno che da San Francisco è diventata vessillo internazionale della pace. Fin qua tutto bene. Anche se già eravamo passati da un simbolo gay a un simbolo universale, di tutti: la bandiera arcobaleno della pace. Ma figuriamoci se ci mettiamo a sindacare su questo. Oggi però siamo al punto che alle Olimpiadi si permette a un trans, ossia a un maschio che si sente donna – e va bene, per carità – di combattere contro una donna a tutti gli effetti. Stiamo parlando di pugni in faccia. Qua i diritti non c’entrano niente: il Cio non dovrebbe consentire una tale profonda ingiustizia sportiva. Non c’entra niente la parità di genere. Almeno lo sport dovrebbe conservare quel senso democraticissimo, come dicevamo all’inizio, di dare la possibilità a tutti gli atleti di giocarsela, di provare a vincere. Così, la nostra pugile parte svantaggiata prima ancora dell’inizio del primo round. Dov’è qui lo spirito olimpico? Dov’è qui lo sport che unisce, che fa abbracciare atleti di tutto il mondo in una festa di sana competizione. Qua di sano c’è soltanto tifare per la donna e sperare che riesca nell’impresa titanica di vincere contro un pregiudizio, un sopruso del Cio, un’ingiustizia. Forza Angela!


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