La defluenza felice
La defluenza felice
di TOMMASO CERNO
Potremmo chiamarla defluenza felice, questa silenziosa ma inesorabile ammissione di disinteresse della società civile verso le proprie malandate istituzioni. Un fenomeno che se non troverà una cura, porterà la politica sempre di più a essere un’estranea del largo consenso, per rifugiarsi nella nicchia degli interessi.
E deve essere talmente chiara ai piani alti del Palazzo questa metamorfosi autoimmune di ciò che avevamo di più caro, la democrazia, che proprio ieri Mattarella ci ha detto che il mondo è peggiorato, fra guerre e pandemie, come se la gente normale non lo sapesse da sola. Così come le notizie di un Putin moribondo ci hanno fatto immaginare la fine di una guerra che decine di uomini potenti del mondo, quasi tutti in salute, non sembrano in grado di immaginare. E così stancamente qualche italiano è andato a votare. Trascinandosi fino al seggio.
Come un Requiem lento della democrazia, l’affluenza elettorale mostra un disimpegno solidale dei cittadini italiani dalla politica. Il messaggio significa: non siete più voi a condizionare le nostre vite. Il risultato va analizzato in profondità, perché la parola spetta sempre a chi sceglie di andare a votare, però qui non si tratta di distrazione o di una democrazia che ha in sé l’idea che nulla cambi. Qui siamo a un punto di svolta nel rapporto tra elettori ed eletti. I governi danno l’impressione, di qualunque natura essi siano, di inseguire un ritornello per convincere delle comunità di appassionati a restare attaccati a un’idea del mondo che non incide più sulla vita reale di milioni di persone. E’ chiaro ormai all’Occidente che il sistema con cui si è retto per un secolo fatica troppo di fronte ai grandi scenari globali, alle concentrazioni di capitale in mano a pochi grandi gruppi, agli interessi generali che muovono guerre e spostano l’asse economico e sociale del pianeta.
L’avevamo chiamata post democrazia perché siamo i più bravi analisti del mondo. Non sappiamo da che parte prenderla né come trasformarla in una democrazia del post. E così ciò che le urne ci confermano sono le tendenze di grande profondità. Giorgia Meloni, lei personalmente, convince una fetta di italiani più ampia di quella che si identifica nel suo partito, ma non lo fa per puro liberismo, lo fa perché c’è un Paese che colloca Meloni nel futuro mentre fatica a vedere le alternative sul campo come novità.
Chi si aspettava un crollo resta deluso, così come resta deluso Matteo Salvini che si scontra con una contraddizione innata nella Lega: un partito di natura nazionale, come quello che il leader interpreta, non è nelle corde degli elettori storici del Carroccio, che stanno andando lentamente verso un modello territoriale che chiede di stare al governo per rappresentare delle istanze precise. Che non hanno nei grandi valori della destra conservatrice riferimenti culturali stabili, ma piuttosto nella rivendicazione di ruolo e spazio di manovra nelle scelte di natura economica e sociale che riguardano il Nord.
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