La burocrazia Ue esaspera Urso: “Così finiamo in mano alla Cina”
L’Europa, più che un’opportunità, rischia di trasformarsi in una catena. L’Italia alza la voce contro la tigre di carta (bollata) e chiede a Bruxelles di mettere gli Stati in condizione di raggiungere gli obiettivi che lei stessa ha fissato. Il ministro alle imprese e Made in Italy Adolfo Urso tuona e pretende chiarezza dall’Ue sul tema dell’approvvigionamento delle materie prime critiche. Ma sono tanti, troppi, i nodi che tengono imbrigliato il Paese e allontanano, sempre di più, l’Italia, eterna “stracciona” dall’Ue delle direttive, dei regolamenti, delle estenuanti mediazioni politiche.
Zitti e fermi
Urso è esasperato dalla non strategia Ue: “L’Europa ci dice che bisogna raggiungere al più presto l’autonomia strategica sulle materie prime critiche per non passare dalla subordinazione dall’energia fossile russa ad una peggiore subordinazione sulle materie prime cinesi che servono per la transizione ecologica digitale. Abbiamo preparato il Paese e abbiamo aggiornato le mappe dei giacimenti che esistevano e dalla quale estraevamo alcuni di questi materiali. Ci accorgiamo ora che questi sono in gran parte in aree protette”. Una beffa che compromette ogni possibilità d’azione per il governo, impossibilitato a compiere ciò che l’Ue ha imposto. “Chiediamo che l’Europa ci dica con chiarezza come dobbiamo raggiungere gli obiettivi da lei prefissati, ponendoci nelle condizioni di farlo”, afferma il ministro che aggiunge: “Esigiamo un fondo sovrano europeo che supporti le imprese nel raggiungimento degli obiettivi strategici europei sia per l’approvvigionamento dei giacimenti di altri continenti sia per quanto riguarda l’estrazione e la lavorazione delle materie prime critiche”. Ma non è finita qui: “L’Europa ci deve dire come superare quelle normative precedenti che ci impedirebbero di raggiungere gli obiettivi. Serve chiarezza, trasparenza e responsabilità per parlare ai nostri cittadini”. Già, perché nel rapporto tra gli Stati membri e Ue accade, in grande, ciò che in piccolo succede ai sindaci: se le cose non funzionano, i cittadini se la prendono con chi ha la fascia tricolore, non con i commissari a Bruxelles.
Anche se tutti, l’Ue no
Eppur si muove. Il mondo, si capisce. Non l’Europa. Che rimane abbarbicata agli annunci. Le materie prime sono centrali per la svolta green. Così come le tecnologie. L’Ue di Ursula von der Leyen non sembra brillare. Né per visione e nemmeno per tempestività. Difatti, mentre in Europa si discetta amabilmente su quanto ci sia da fare, Stati Uniti e Australia chiudono un accordo blindatissimo per le terre rare e per le tecnologie digitali. Washington prosegue, a tappe forzate, la strategia di reshoring, cioè di richiamo in patria, dei fornitori e delle aziende tech più importanti. Lo fa, come noto, con lo strumento più amato dagli imprenditori, cioè quello dei sussidi e degli aiuti. Che sta riportando, negli Stati Uniti, i big dell’hardware informatico, dell’automotive e dell’innovazione. Con l’accordo tra la Casa Bianca e il governo di Canberra, gli Stati Uniti puntano a crearsi spazi di approvvigionamento delle materie prime “liberi” dall’influenza cinese. Insomma, negli Usa fanno le cose sul serio. Basti pensare che gli Stati Uniti, solo per richiamare in patria i produttori di chip, investiranno 250 miliardi di dollari in cinque anni. L’Ue, che punta a raddoppiare l’attuale quota di mercato mondiale (oggi al 9% con l’obiettivo del 20%), ne investirà 43 in sette anni. Non c’è partita. Il problema è che, senza uno scatto di reni, sarà davvero difficile mantenere le promesse. Altro che Silicon Valley europee (tra cui quella progettata in Sicilia e i poli tecnologici del Nord tra il Veneto e l’Emilia Romagna), l’Europa rischia di scappare dalla padella degli combustibili fossili dalla Russia per finire sulla brace della tecnologia cinese. Non proprio una bella prospettiva.
Figli e figliastri
Quello denunciato dal ministro Urso non è il primo smacco europeo per l’Italia. Anzi. Due temi, sugli altri, hanno dominato il dibattito pubblico nazionale in relazione alle scelte prodotte dai funzionari di Bruxelles. Si tratta dell’auto e dell’edilizia. Il governo di Roma, insieme a quello tedesco, aveva ottenuto dalle istituzioni Ue una sorta di apertura sulla stretta, passata a risicata maggioranza in parlamento, che impone il ban ai motori endotermici dal 2035. L’Italia puntava a introdurre, nel novero delle alimentazioni a norma, i biocarburanti e la Germania, invece, indicava negli e-fuels la strada per il futuro. L’Ue, dopo lunghe e pensose settimane passate a produrre incartamenti e documenti, ha scelto (come al solito) di accontentare Berlino e di bocciare le richieste italiane. La direttiva sulla casa green presenta un errore di impostazione almeno rispetto al punto di vista italiano. Il patrimonio immobiliare, nel nostro Paese, è datato ma, soprattutto, è nelle mani delle famiglie. La scelta di imporre ai cittadini spese importanti per efficientare abitazioni e case, con la minaccia di svalutarle, arriva proprio durante i mesi in cui l’Italia elimina il Superbonus (che proprio per questo era stato avviato dal governo Conte) e scopre un buco in cassa da decine e decine di miliardi di euro. Il paradosso, dunque, diventa che nella percezione pubblica la transizione green la devono fare, di tasca propria, le famiglie mentre le istituzioni Ue riescono a perdere ogni treno possibile per immaginare una vera e solida politica economica e tecnologica che restituisca centralità al Vecchio Continente, alle prese con l’economia di guerra scatenata dal conflitto che infuria tra Russia e Ucraina.
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