Attualità

Italiani detenuti all’estero e diritti umani: 2.600 in attesa di giudizio

di Giuseppe Messina -


Sono oltre 2.600 gli italiani detenuti all’estero in attesa di giudizio. Molti di essi detenuti in condizioni carcerarie disumane. L’appello di Papa Francesco per il rispetto della dignità di ciascun essere umano e il nostro governo?

Il caso della giornalista Cecilia Sala, liberata dopo essere stata detenuta nel carcere di Evin a Teheran, in Iran, dal 19 dicembre 2024 ha riacceso i riflettori su un fenomeno le cui dimensioni e le conseguenti implicazioni sono completamente sconosciute ai più. Volendo analizzare la notizia su una più vasta scala, il riferimento va alle migliaia di connazionali detenuti in stati esteri e di cui non si conoscono, nella maggior parte dei casi, né le ragioni effettive della carcerazione né le condizioni della detenzione né, tantomeno, l’eventuale iter per la liberazione o per l’estradizione in Italia. C’è da chiedersi se la nostra organizzazione diplomatica e consolare sia in grado di gestire tali crisi in un contesto politico internazionale in continuo e veloce mutamento.

A questo punto del ragionamento, una domanda è d’obbligo: siamo sicuri che tutti i connazionali detenuti all’estero ricevano la stessa attenzione dalla stampa e dal nostro governo? La questione è una: la tutela dei diritti umani. Chiariamo che tutti i cittadini italiani, in caso di un provvedimento detentivo subìto in uno stato estero, hanno diritto a chiedere ed ottenere assistenza consolare per il contatto con i propri familiari o l’assistenza medica e legale. Ma siamo chiaramente consapevoli che non sempre ciò risulta di facile attuazione per via di eventuali ostacoli addotti dal paese di detenzione. A livello globale, il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sul tema è in continua evoluzione. Secondo la moderna teoria dei diritti umani, l’individuo è protetto dal diritto internazionale in quanto essere umano, piuttosto che come cittadino di un altro Stato. Secondo il moderno orientamento dottrinale, l’istituto della protezione diplomatica sarebbe soggetto a una radicale trasformazione, dovuta non solo all’affermazione dei diritti individuali, ma anche all’influenza esercitata dal diritto internazionale dei diritti umani.

Questo secondo orientamento sembra confermato dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia, laddove la Corte ha sostenuto che l’ambito di applicazione della protezione diplomatica, si è adesso ampliato fino a includere i diritti umani internazionalmente garantiti. Sotto l’aspetto pratico, quindi, il tema cruciale che si presenta per ogni italiano che cade nella rete della giustizia di altri paesi è il trattamento di detenzione, le condizioni carcerarie alle quali è sottoposto e il rispetto dei diritti umani inviolabili. Papa Francesco si è espresso numerose volte per difendere la dignità umana dei carcerati, ricordando che il cristianesimo è una religione di perdono, pace e speranza. L’anno giubilare appena iniziato, non a caso, ha visto, lo scorso 26 dicembre, l’apertura della porta Santa nel carcere romano di Rebibbia. Un gesto simbolico che reca un chiaro e preciso obiettivo, quello di portare il dono della speranza in un luogo di espiazione e di afflizione. E le nostre istituzioni, come si muovono? La premier Meloni si è recata nei giorni scorsi negli Stati uniti per incontrare Il neo-presidente Trump ed affrontare la questione della liberazione della nostra connazionale Sala, per la liberazione della quale, a quanto sembra, l’Iran chiede uno scambio con l’ingegnere Mohammad Abedini Najafabadi, attualmente detenuto in Italia e per il quale gli Usa hanno già chiesto l’estradizione perché ritenuto un pericolosissimo terrorista. Ma il fenomeno dei nostri connazionali “”ospiti” di penitenziari all’estero viaggia su cifre davvero consistenti: sono oltre 2.600 gli italiani detenuti in paesi stranieri, secondo i dati risalenti a febbraio 2024 forniti dall’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria (Osap).

A loro, il Ministero degli Esteri e la rete diplomatica e consolare garantiscono sostegno e assistenza. Almeno sulla carta, perché, in numerosi casi accertati, non sarebbe esattamente così. Il 35% circa è in attesa di giudizio, con sentenze non definitive o in attesa di estradizione in Stati dove le organizzazioni umanitarie denunciano da anni le pessime condizioni di vita carcerarie. È pur vero che il fatto di scontare una pena all’estero solleva una serie di problematiche che rendono la detenzione ancora più dura. Oltre alle naturali barriere linguistiche, c’è una maggiore difficoltà di comprensione della legislazione locale, alla quale si accompagna la mancanza di un gratuito patrocinio e il rischio di rimanere vittime di discriminazioni. L’equità del processo o gli interventi posti in essere per la liberazione del prigioniero, a questo punto, appaiono secondarie rispetto alla necessità indifferibile di intervenire con autorevolezza per proteggere i nostri connazionali e garantire loro condizioni umane di vita carceraria. Quello di Ilaria Salis rappresenta uno dei casi più noti all’opinione pubblica. Maestra di professione e attivista, la Salis è stata arrestata nel febbraio 2023 con l’accusa di aver causato “lesioni che potevano pregiudicare la vita” a tre militanti dell’estrema destra ungherese; ma dopo la temporanea carcerazione, la detenzione agli arresti domiciliari e la liberazione, ha ottenuto l’immunità con l’ingresso al parlamento europeo. Nel maggio 2024, è passata alla cronaca la condanna di Filippo Mosca, un ragazzo recluso in Romania con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti.

In questo caso, le relazioni tra due paesi membri dell’Unione europea avrebbero dovuto costituire la garanzia del rispetto dei diritti umani per il detenuto. Invece, la madre di Mosca ha denunciato per mesi le pessime condizioni e i maltrattamenti a cui è stato sottoposto il figlio nelle carceri rumene e la totale assenza delle istituzioni italiane. Tra le vicende più famose degli ultimi anni, quella di Chico Forti, un ex velista e produttore televisivo condannato nel 2000 all’ergastolo per un omicidio consumato due anni prima negli Stati Uniti. Per più di due decenni, Forti ha scontato la pena in Florida, fino al maggio 2024, quando è stato trasferito, a seguito di un’opera di mediazione da parte del governo Meloni, nelle carceri italiane.  Della maggior parte dei connazionali detenuti all’estero si sa poco o nulla. Oltre ai chi è in attesa di giudizio o estradizione, c’è anche chi è morto nell’inutile attesa di un ritorno in patria, come il 36enne carpentiere di Viareggio Daniele Franceschi, deceduto nel carcere di Grasse, in Francia, in circostanze mai completamente chiarite. O come il bancario leccese Simone Renda, deceduto il 3 marzo 2007 nel carcere messicano di Playa del Carmen: l’uomo stava male, ma non ricevette alcuna assistenza sanitaria in cella. Tanto c’è da fare per garantire adeguata assistenza e protezione diplomatica ai nostri connazionali detenuti all’estero. Il nostro paese saprà compiere un passo in avanti per garantire i diritti umani a tutti i connazionali nei penitenziari esteri con la riorganizzazione della rete diplomatica-consolare e una riconosciuta autorevolezza internazionale?


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