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Industria italiana, la grande dimenticata

di Valerio Savaiano -

Dal boom industriale alla frammentazione economica: l'evoluzione dell'Italia tra sfide e opportunità.


Italia, paese di artigiani. No, anzi: Italia, paese della ristorazione. No, forse: Italia, paese di creativi. Aspetta, ce l’ho: paese che potrebbe vivere di solo turismo. Paese di santi, poeti, navigatori. Italia, paese di tutti questi pregiudizi, nessuno dei quali si avvicina alla realtà dei fatti. Perché l’Italia è diventata la potenza economica mondiale che è stata e in parte ancora è (ma molto meno) grazie a un approccio geniale e sempre all’avanguardia dell’industria italiana.

Si immagina un paese la cui eccellenza è rappresentata dall’artigiano fiorentino che lavora la pelle nella piccola bottega con un apprendista vicino. Ci si convince dell’immagine del maestro vetraio che a Murano se ne sta lì, solo e anziano, a soffiare in canne di metallo. Oppure il vecchietto a Caltagirone che nel caldo del suo laboratorio realizza quelle incredibili ceramiche. Questa narrazione è semplicemente irreale. Non che non esistano queste peculiari eccellenze che realizzano pochi pezzi magari molto pregiati e venduti con un alto margine, ma l’Italia grande lo è diventata quando si è trovato il modo di industrializzare queste eccellenze mantenendo alta la qualità e l’identità di marca.

Negli anni del boom, della grande crescita dal dopoguerra agli anni ’80 (malgrado i primi segni di destabilizzazione post crisi del petrolio), l’Italia era un paese di brand fortissimi. Ecco, qui c’è l’altra chiave: il valore della marca, il racconto dell’eccellenza che porta le persone ad essere certe che valga la pena spendere il 30% in più per un prodotto italiano rispetto all’omologo proveniente da altri luoghi. Industria all’avanguardia, tecnologia e branding (o “valorizzazione del marchio” se vogliamo essere linguisticamente autarchici) erano le nostre teste d’ariete per sfondare il mercato mondiale. Il successo dell’industria italiana è stato determinante per il boom economico di quegli anni. Fa strano pensarlo oggi, guardando alla narrazione sull’economia nostrana da decenni considerata a un passo dal baratro eppure incredibilmente ancora viva. Come è possibile?

C’è da considerare che ci dimentichiamo settori poco appariscenti e quindi poco raccontati, con la conseguenza che non è più di comune conoscenza la grandezza e l’importanza globale di realtà come ENI, Leonardo, Fincantieri, Enel, Generali, i colossi bancari Intesa e Unicredit, Prysmian, Saipem e molte altre. Questo è dovuto anche al non capire più quale azienda sia ancora realmente italiana e quale non lo sia più. È anche abbastanza normale dal momento che quelle realtà che consideravamo eccellenze nostrane come FIAT, Bulgari, Gucci, Pirelli o Peroni. Ma in tutto questo ragionamento allora dov’è il problema? Cosa frena l’economia di questo paese?

Probabilmente il fatto che il 99% circa delle imprese italiane ha meno di 50 addetti, addirittura l’80% meno di 9 e quasi tutte agiscono slegate tra loro, combattendo per un pezzo di carne lanciato dalle grandi aziende, a colpi di offerte al ribasso, per accaparrarsi un appalto. Non vi tedio con i numeri ma vi assicuro che le micro e piccole imprese che sopravvivono fatturando in subappalto con una sola realtà sono moltissime e che succede se la grande azienda non gli rinnova il contratto di fornitura? Che l’azienda chiude e gli impiegati tornano disoccupati e gli impiegati nelle micro e piccole che lavorano in queste condizioni sono più della metà di tutti gli occupati italiani. Eccolo qui il problema, freno a mano dello sviluppo: un sistema in cui non c’è più l’acquisizione di quote delle piccole aziende in filiera da parte delle capofiliera, non ci sono i distretti, non c’è coordinamento. C’è un mercato frastagliato e competitivo al ribasso dove lo stato non fa altro che alimentare questo gioco.

Non siamo più un paese di industria, siamo un paese di servizi. Mentre nel primo comparto ci sono circa 310mila imprese, in quello ampio dei servizi ne contiamo 712mila di cui 248mila nel commercio e 160mila nell’alloggio e ristorazione. Questo spiega anche molto della crisi occupazionale: il settore dei servizi è per natura più instabile e nel commercio ogni impresa impiega di media meno di 10 dipendenti contro i 20 dell’industria in senso stretto. E in tutto questo il livello di innovazione è bassissimo. Le micro e piccole imprese sono quelle con più difficoltà nell’adottare le giuste strategie per migliorare e crescere. CRM, marketing, controllo di gestione, indici di crisi, gestione del personale, gestione dei clienti, tutto viene ancora fatto quasi sempre “a mano” e l’offerta è purtroppo spesso frammentata, ingiustamente costosa e condita da fuffa guru e truffatori. Qui risiede il vero tesoro nascosto, sepolto, occultato di questo Paese: nelle potenzialità inespresse di tre o quattro generazioni cresciute pensando di vivere nel paese dell’IRI, dei distretti e della grande industria e ritrovatesi in un caos totale, senza guida, senza tracce da seguire, soli, isolati, incattiviti e impauriti ma ancora abbastanza orgogliosi e capaci da volerci provare. Dobbiamo lavorare tutti per riprendere il filo, mettere ordine, mostrare i solchi già tracciati. E dobbiamo ricacciare i pregiudizi sull’economia italiana, l’autorazzismo che ci porta a pensare che criminalità e corruzione esistano solo qui, la pigrizia dei piccoli imprenditori che “ho sempre fatto così”. Dobbiamo evolvere prendendo esempio da quello che abbiamo già fatto e aggiornare quei modelli all’era post-contemporanea in cui viviamo oggi, spesso senza rendercene conto. Lavorare alla ripartenza di una nuova industria italiana.


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