IN GIUSTIZIA – Se le vittime siamo noi
di ELISABETTA ALDROVANDI
George Orwell ci ha insegnato che siamo tutti uguali, ma qualcuno lo è più degli altri. E appuriamo questo amaro ma realistico principio ogni giorno, nella nostra quotidianità.
Dalle raccomandazioni che aiutano a saltare le file, agli aiuti a oltrepassare ostacoli insuperabili col solo merito, alla tolleranza sfacciata verso comportamenti platealmente illegali, la sfiducia nel diritto di avere tutti le stesse possibilità, nonostante condizioni di partenza inique, è un miraggio che pare, con graduale maggiore frequenza, irraggiungibile.
Quando, poi si leggono notizie di persone che per decenni hanno goduto dell’ambito “posto fisso” senza alcun merito, ma percependo stipendi e maturando diritti senza corrispondere alcuna prestazione lavorativa, il dubbio che Orwell avesse ragione diventa certezza.
È il caso di una professoressa di filosofia di un istituto superiore di Chioggia, in provincia di Venezia, che su ventiquattro anni di cattedra ha lavorato per quattro, mentre gli altri venti li ha passati come assente ingiustificata o in malattia.
Nel 2015 il Ministero dell’Istruzione, intervenuto in seguito a diverse segnalazioni degli studenti che evidenziavano l’incapacità della docente a insegnare e la sua incompetenza sulla materia, provava a sospenderla, ma lei, come era nei suoi diritti, si era opposta.
Ne era nata una vertenza che, tra primo, secondo e terzo grado di giudizio si è conclusa soltanto ora, con la sentenza della Corte di Cassazione che ha stabilito, in via definitiva e senza possibilità di ulteriori repliche, di destituire la docente per “assoluta e permanente inettitudine alla docenza”.
In particolare, oltre alle reiterate e ingiustificabili assenze, la professoressa, quando si degnava di presentarsi in aula, non prestava attenzione agli studenti durante le interrogazioni, perché intenta a usare il cellulare o a parlare con altri alunni.
A questo si aggiungeva l’assenza di criteri nell’attribuire i voti, spesso agganciati allo stato umorale del momento, l’assenza di filo logico nella sequenza delle lezioni, l’indicazione di un numero fittizio di ore insegnate e l’inserimento di argomenti mai trattati.
Insomma, oltre ad una chiara e inequivocabile deficienza in tema di “quantum”, la gravità della condotta era riferibile anche al “modus”, ossia alle modalità con cui venivano condotte le lezioni.
Nel frattempo, mentre l’elefantiaca macchina della giustizia arrancava provando a dipanare la matassa di accusa e difesa, la docente, ovviamente assente dalla scuola per malattia o altro, ha continuato a mantenere il “posto fisso”, compresi alcuni benefici annessi e connessi, tra cui il trattamento di fine rapporto, senza lavorare.
Una giustizia che arriva a distanza di così tanto tempo dall’accertamento delle violazioni di legge, è davvero “giusta”? Quanti diritti che non le spettavano ha mantenuto quell’insegnante, a causa della lentezza di un sistema farraginoso e troppo spesso inefficace?
Per non parlare dei danni ai suoi studenti, costretti a subire per decenni continue supplenze, e del diritto al lavoro stabile tolto ad altri insegnanti sicuramente più meritevoli di lei.
Insomma, da qualsiasi parte la si guardi, un’invocazione sorge spontanea e univoca: ossia, l’impellente necessità che la tutela dei diritti sia tempestiva e che la verifica di situazioni di illiceità siano accertate in modo compiuto ed entro tempi ragionevoli.
Necessità improcrastinabile non soltanto per chi subisce la lesione del proprio diritto, in questo caso quello allo studio o di salire in graduatoria al posto di chi non merita quella collocazione, bensì anche per colui al quale la violazione viene contestata, che nel caso di colpevolezza non può beneficiare di tempi della giustizia abnormi per mantenere benefici immeritati, e in caso contrario deve poter far valere la sua innocenza senza che la sua reputazione sia irrimediabilmente rovinata.
Comunque, da qualsiasi prospettiva la si guardi, una certezza esiste: che così, non va.
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