Attualità

IN GIUSTIZIA – Revisione, sì o no?

di Redazione -


di ELISABETTA ALDROVANDI
Non c’è nessuna revisione del processo che ha portato, in tre gradi di giudizio, a condannare all’ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano per l’omicidio di Raffaella Castagna, 30 anni, di suo figlio Youssef di 2, della madre Paola Galli, 57, e della vicina di casa Valeria Cherubini, 55, oltre al tentato omicidio di Mario Frigerio, marito della Cherubini, che miracolosamente si salvò. O almeno, non ancora. La richiesta avanzata dal sostituto procuratore Cuno Tarfusser, motivata in un documento di ben 58 pagine, è stata inoltrata alla procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, e all’avvocato generale dello Stato, Lucilla Tontodonati. A loro spetterà analizzare la relazione e, se troveranno fondate le ragioni, inviare la domanda di revisione alla Corte d’Appello di Brescia, territorialmente competente per i casi di revisione di processi celebrati a Milano. Nel caso in cui la Corte d’Appello di Brescia riterrà, a sua volta, valida la richiesta, si svolgerà un nuovo processo. E nelle more di un nuovo giudizio potrebbe anche disporsi la scarcerazione dei due condannati. Ma come funziona la revisione di un processo penale già definito con sentenza passata in giudicato? In base al nostro ordinamento, la richiesta segue il percorso stabilito dall’art. 630 del codice di procedura penale, in base al quale la revisione può essere chiesta “se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto”, oppure “se è dimostrato che la condanna viene pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato”. Tale revisione può essere chiesta dalla persona condannata o un suo parente attraverso il proprio collegio difensivo (e infatti anche la difesa di Rosa e Olindo ha presentato la domanda subito dopo il procuratore) oppure può farlo il procuratore generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto, cioè l’area di competenza della Corte, fu espressa la sentenza di condanna. Nel caso in questione l’istanza è partita dal sostituto procuratore, e al momento la procura generale non ha ancora inoltrato nessuna richiesta alla Corte d’Appello di Brescia: lo farà solo se giudicherà che vi siano elementi consistenti per smentire ciò che è stato deciso da ventisei diversi giudici in tre gradi di giudizio. Il contenuto di quelle 58 pagine è fondamentale: oltre a smontare le prove regine che hanno portato, all’epoca, alla condanna della coppia, il dottor Trafusser presenta nuovi elementi a favore della loro innocenza. In particolare, si contesta la deposizione di Mario Frigerio, il testimone chiave che fu fondamentale nel formare il convincimento dei giudici circa la colpevolezza, giudicata, da ben diciassette esperti coinvolti, non attendibile e quindi non acquisibile agli atti. E questo perché “Frigerio sviluppò”, spiegano, “a seguito dell’aggressione, una disfunzione cognitiva provocata da intossicazione da monossido di carbonio, arresto cardiaco, shock emorragico e lesioni cerebrali focali. Stante la gravità dei singoli eventi neurolesivi, la loro concomitanza in un soggetto anziano e iperteso ha sicuramente determinato un complessivo scadimento delle funzioni cognitive necessarie a rendere valida testimonianza”. Aggiungono, poi, che “il testimone fu progressivamente indotto ad aderire a suggerimenti che determinarono l’installazione di una falsa memoria circa la corrispondenza tra l’aggressore sconosciuto e Olindo Romano”. La procura generale di Milano ha poi proceduto alla “decodifica e trascrizione integrale delle intercettazioni ambientali dal 20 dicembre 2006 al 3 gennaio 2007 compresi, mai effettuate prima, dalle quali si evince che il testimone fu esposto ad alterazione del ricordo da parte dei figli e del suo avvocato. Queste stesse trascrizioni sono inoltre prova ulteriore del decadimento cognitivo di Frigerio, che lo rendeva inidoneo a rendere testimonianza”. Altro elemento decisivo a determinare la condanna fu la macchia di sangue trovata nell’auto di Olindo. Per i consulenti interpellati, dalla documentazione processuale non è comprovata la sua esistenza, peraltro sfuggita anche alla perquisizione effettuata nell’immediatezza dell’evento. Addirittura emergerebbe un esame da parte dei RIS della scena del delitto e dell’abitazione di Rosa e Olindo, all’esito del quale non si sarebbe tutto è nelle mani, e nelle carte, consegnate alla procura generale di Milano e all’Avvocatura dello Stato, cui spetta un compito delicatissimo in bilico tra l’obbligo di verificare la fondatezza delle contestazioni e nuove prove fornite dal sostituto procuratore e dalla difesa di Rosa Bazzi e Olindo Romano, e una condanna all’ergastolo ribadita per ben tre volte. Ricordando sempre, che ai familiari delle vittime non interessa avere un colpevole. Ma il colpevole.

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