Attualità

IN GIUSTIZIA – Giustizia a singhiozzo

di Redazione -


Rubrica IN GIUSTIZIA
DI ELISABETTA ALDROVANDI

Due donne che abitano distanti l’una dall’altra. Non si conoscono, e probabilmente non si incontreranno mai. Ma hanno in comune vicende terribili, che forse si potevano evitare. Come? Se il nostro Stato rispettasse le leggi che esso stesso si dà, anche se per farlo a volte occorre la collaborazione di altri Paesi. Entrambe, infatti, sono vittime di gravi delitti, consumati, stando alle indagini degli inquirenti, da persone che a causa di quelli e altri delitti non dovrebbero essere sul territorio italiano, perché destinatarie di un decreto di espulsione. E invece, in Italia ci sono, e beneficiano pure dei servizi di accoglienza previsti.

In giustizia: due storie lontane ma vicine

L’uno è un ventinovenne marocchino che, alle prime ore dell’alba di alcuni giorni or sono, si è intrufolato nell’appartamento di una donna di Modena, l’ha sequestrata e l’ha costretta a uscire e prelevare con il bancomat, per poi rapinarla e minacciarla di morte se lo avesse denunciato. Ma lei non si è lasciata intimorire, ha chiesto aiuto alle forze dell’ordine che, anche grazie alla sua descrizione particolareggiata, hanno rintracciato l’uomo presso un centro di distribuzione pasti per i poveri, dove si recava abitualmente per mangiare. Arrestato, si è scoperto non soltanto che è pluri pregiudicato, ma che ha pure un decreto di espulsione dal territorio italiano, al quale ovviamente non ha mai ottemperato.
L’altra donna è una giovane vittima da tempo di atti persecutòri perpetrati da un cittadino indiano, che, dopo aver tentato di stuprarla e averla perseguitata per mesi, e nonostante una detenzione in carcere di un anno e mezzo, ha continuato a molestarla e minacciarla di morte telefonandole dal centro di accoglienza in cui è stato ospitato una volta uscito di prigione, e dal quale è sparito senza lasciare tracce. Lei, la vittima, racconta: “Sono una morta che cammina. Lui mi ha promesso che mi decapiterà, che mi butterà addosso l’acido o mi darà fuoco e lo farà. Se nessuno interviene lo farà. Per favore aiutatemi, lancio un appello prima della mia tragedia. Mi ucciderà”, ripete trattenendo a fatica le lacrime. “Ho riempito la mia auto di bottiglie d’acqua e quando mi darà fuoco mi getterò subito l’acqua addosso. Così forse mi potrò salvare”. A stento si può comprendere la condizione di terrore psicologico in cui versa questa donna, e le conseguenze che si porterà dentro per il resto della vita.
Il Comune di Roma, dove risiede, e il Prefetto hanno messo a disposizione agenti delle forze dell’ordine per proteggerla e case rifugio, ma la domanda che sorge spontanea è sempre quella: perché deve essere la vittima a nascondersi, mentre il carnefice se ne sta libero senza che vi siano strumenti giudiziari adeguati per contenere il pericolo che commetta azioni violente irreversibili? Il principio di presunzione di innocenza impone di limitare quanto più possibile i provvedimenti di limitazione della libertà personale fino a sentenza passata in giudicato, ma quando si tratta di stranieri che, per la tipologia di reati commessi, sono stati colpiti dal decreto di espulsione, è evidente che, una volta scontata la pena, ogni giorno di attesa rischia di trasformarsi in una situazione di gravissimo pericolo per l’incolumità personale delle vittime. Ma questi decreti spesso restano ineseguiti non soltanto per ragioni di costi, bensì perché mancano accordi con i Paesi di provenienza, che non accettano il rientro di queste persone, proprio per la loro “storia criminale”. E quindi, una soluzione, vista la percentuale non proprio minimale di coloro che commettono gravi reati contro la persona, è accordarsi con gli Stati da cui partono, perché ne impediscano, appunto, la partenza. Ben vengano, pertanto, patti e aiuti economici, purché abbiano efficacia concreta. A livello generale, e individuale. Perché la sicurezza è un diritto. E non un desiderio.


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