Attualità

IN GIUSTIZIA – Chi ha paura delle cryptovalute?

di Francesco Da Riva Grechi -


Chi ha paura delle cryptovalute? – Tradizionalmente su questa testata si è dato spazio alle idee della “Trumpnomics” e le dimensioni della schiacciante vittoria di Donald Trump hanno consacrato questa impostazione, insieme alla constatazione del decollo della personale rivoluzione industriale di Elon Musk. Più problematica la condivisione delle idee finanziarie di Musk e della centralità del sistema delle cryptovalute nel disegno economico del nuovo Presidente americano. Per il poco competitivo mercato finanziario italiano non è facile comprendere che sulle monete (oltre che sui dazi) si sta già giocando la nuova guerra fredda economica e commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti. La Cina ha infatti già creato una moneta digitale, che è una cosa molto diversa da una cryptovaluta, con la relativa banca centrale; gli Stati Uniti invece sono già dominanti sui mercati occidentali con le cryptovalute che sono monete private che si avvalgono della tecnologia blockchain e che non hanno nulla a che vedere con le sovranità nazionali o con le zecche degli stati. Elon Musk è dunque il fondatore e CEO, oltre che di Tesla, di SpaceX e del social network X, che ha sostituito Twitter, anche di una propria criptovaluta privata, Dogecoin, che ovviamente sta raggiungendo quotazioni record. Dal punto di vista culturale, tra le diverse concezioni della rete, e quindi del web, che si sono confrontate nelle recenti elezioni americane, ha prevalso quindi quella che potremmo definire “libertarian” e dunque il ritorno di Trump sembrerebbe segnare anche un ritorno al capitalismo rampante sviluppatosi sull’onda lunga delle vittorie di Ronald Reagan negli anni ’80 del ‘900 e alla Scuola di Chicago nell’ambito accademico. Dal punto di vista giuridico e giurisdizionale, è curioso il ritorno del Tribunale del Delaware (che tanto aveva influenzato la giurisprudenza di quegli anni) a giudicare oggi sulle vicende incredibili dei compensi di Elon Musk (55,8 miliardi di dollari quest’anno in stock option (il diritto di comprare o sottoscrivere azioni dell’azienda a un determinato prezzo, con la possibilità di rivenderle per ricavarne una plusvalenza)) che ammontano praticamente al doppio della manovra finanziaria annuale di uno stato come l’Italia (28 miliardi di euro). Risultato: meno lacci e lacciuoli tipo Esg (Environmental, Social and Governance) e Corporate Social
Responsability e tanta tecnologia blockchain per liberare i mercati dalle ingerenze degli Stati-canaglia e di troppo aggressive discipline fiscali e antiriciclaggio che ingessano le transazioni finanziarie in moneta ordinaria. Per dare una definizione di blockchain si può fare riferimento ad un registro pubblico decentralizzato dove i blocchi completi, che includono le transazioni più recenti, vengono registrati e conservati in ordine cronologico come documentazione aperta, permanente e verificabile. Una rete peer-to-peer (paritetica) di partecipanti al mercato gestisce le blockchain e segue un protocollo preciso per convalidare nuovi blocchi. Ogni nodo o computer connesso alla rete scarica automaticamente una copia della blockchain. Questo permette a tutti di tenere traccia delle transazioni senza dover registrare i dati a livello centrale. Rimane solo da augurarsi che questa nuova brillante versione del sogno americano, molto in grande, non diventi un incubo di illegalità nel dark web.


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