Esteri

Il Tulipano nero e la disfatta del talebano del Green deal

di Giovanni Vasso -


L’Olanda, dopo le elezioni, s’è svegliata più a destra di quanto non credesse. Non l’hanno visto arrivare, il Pvv di Geert Wilders, che ha raddoppiato i consensi e i parlamentari. Il Partito della Libertà ha ottenuto il 23,8% dei consensi e ambisce a portare al Binnenhof ben 37 deputati. È andata male al Vvd, il partito del premier uscente Mark Rutte; i liberali puntavano forte su Dilan Yesilgoz, che sognava di diventare la prima presidente donna dei Paesi Bassi. Per loro, appena il 14,4% dei voti che valgono 24 deputati. Gli ex alleati del Nuovo Contratto Sociale non vanno oltre il 13,9%. Gli agricoltori, che si erano organizzati nel Partito dei cittadini boeri (Bbb), hanno incassato il 5,5 per cento delle preferenze. Pochine, rispetto a quante se ne aspettavano. Ma c’è qualcun altro che ha ragione, ben più di loro, per dolersi di un fallimento elettorale inaspettato. Quell’uomo si chiama Frans Timmermans ed è il papà del Green deal dell’Ue e aveva lasciato la comoda poltrona da vicepresidente della Commissione che occupava a Bruxelles per candidarsi, alla testa di un’alleanza tra socialisti e Verdi, alla guida del Paese.
Da politico navigatissimo, qualche mese fa, aveva fiutato l’aria: i liberali di Rutte, dopo la caduta del loro quarto governo, non avrebbero più conquistato la maggioranza anche perché s’era sfaldata la coalizione del centrodestra. Certo, c’era e c’è la protesta, la rabbia popolare e lo scollamento tra Paese reale e Unione Europea. Di cui lui, peraltro, era stato il più accanito e convinto difensore per quanto riguarda le politiche green. Il colpo di genio è arrivato nelle scorse settimane quando è andato in tv a rinnegare il suo stesso operato, producendosi in una clamorosa retromarcia sui temi delle emissioni degli allevamenti che lui stesso avrebbe voluto parificare a fabbriche e siti inquinanti. Nemmeno questa mossa, però, è riuscita a riportare laburisti e verdi al governo. Timmermans s’è fermato al 15% e avrà tanti deputati quasi quanti Rutte e soci. Tanto rumore per nulla. Anzi, no. Il rumore c’è stato. Lo hanno fatto i “sovranisti” di Wilders che sono convinti di andare al governo perché “non possono ignorarci”. Per il Pvv è un’operazione win-win: se Wilders arrivasse al Catshuis e ottenesse il mandato da re Guglielmo Alessandro, bene. Se non ci arrivasse, meglio: potrebbe (ulteriormente) lucrare in termini di consenso su un governo di minoranza che nascerebbe già zoppo evocando l’ostracismo contro la volontà popolare espressa dalle urne. Così come è accaduto in Polonia e, ancor di più, in Spagna. Dove, seppur sia stato riconfermato, il governo bis di Pedro Sanchez è stato tenuto a battesimo dalle rivolte di piazza, inferocite per l’accordicchio tra il centrosinistra e gli autonomisti catalani che lo appoggeranno in cambio di impunità per quegli esponenti della galassia secessionista finiti nei guai qualche anno fa.
Ma il rumore c’è stato. Eccome. E si è sentito fino a Bruxelles. Gli olandesi hanno bocciato, senz’appello, le politiche green. Non è stata la sconfitta (solo) di Timmermans, ma quella di Ursula e della sua maggioranza. Lo scenario è tracciato. Avanzano le eurodestre scettiche. Ovunque. Il problema è di tutti. Della Ue e dei suoi funzionari, dato che alle prossime europee non sarà facile continuare a governare con l’ennesimo accrocchio parlamentare con tutti dentro. Delle formazioni sovraniste, che non hanno profili spendibili per un governo. Nasce l’esigenza di trovare una figura di mediazione. Che potrebbe rispondere al nome di Giorgia Meloni. La sua storia politica è nota e definirla di estrema destra è (legittimo, per carità) esercizio di propaganda da parte degli avversari. L’accordo appena siglato con la Germania, che ha posto fine a sette anni in cui i rispettivi governi non si erano mai incontrati facendosi anche la guerra per interposta Ong, la pone su un piano diverso da quello a cui era stata consegnata dalla facile retorica e dalle analisi politiche interessate. Altro che populista sguaiata destinata a spegnersi lentamente, con la vittoria di Wilders, ma anche con quelle (mutilate…) delle destre in Polonia e Spagna, la premier italiana si ritrova al centro degli equilibri politici dell’Ue. Sarà lei a dare le carte quando si tratterà di dover trovare una mediazione tra le istituzioni comunitarie e le forze che entreranno o rafforzeranno la loro presenza a Strasburgo.


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