Il Teatro come conoscenza di sé e dell’altro
“A differenza del cinema, il Teatro ha una difficolta in più per gli attori: quella di dover parlare a un gruppo di persone senza microfono, senza luci. Ma il pericolo più grande è pensare che tutto ciò che devono fare è essere sé stessi. Se così fosse avremmo un teatro povero. Il testo teatrale invece aiuta l’attore a trovare lati sconosciuti della propria personalità.” Peter Brook. La bellezza del Teatro e della recitazione risiede nell’interpretare qualcun altro, senza perdere la propria naturalezza. Essere se stessi in qualcun altro. Riconoscersi in qualcosa di diverso da noi. Imparare a memoria in inglese si dice learn by heart. Per gli antichi è il cuore è la sede della funzione mnemonica. Ricordare deriva dal latino cor cordis, ossia cuore. Memorizzare un testo per l’interpretazione significa capirlo dapprima con il cuore. Non si può recitare senza metterci tutta l’anima. Ogni attore quando interpreta un personaggio mette in gioco se stesso, cede qualcosa a servizio del ruolo e riceve qualcosa in cambio, in un continuo scambio osmotico. È una prova di coraggio. Lasciar andare le proprie conoscenze per cimentarsi con qualcun altro e qualcos’altro, trovando un punto d’incontro, una mediazione. Paragonato al fenomeno della globalizzazione, l’attore non è colui che cerca la grande catena di fast food in un centro rurale dell’Asia, ma colui che si lascia andare a sperimentazioni enogastronomiche locali. Sperimentare gusti nuovi per tornare a casa con un palato nuovo. Allo stesso modo quando il professionista si approccia al personaggio, l’attore si spoglia di se stesso per incontrare il diverso. Recitare insegna a non avere paura dell’altro. A non chiudersi, stretti e sicuri solo di ciò che si conosce. È un coraggioso viaggio verso l’ignoto ma col sorriso sulle labbra. Grazie al Teatro si ha la possibilità di uscire, di deviare, di errare un po’. Lo psicologo canadese Eric Berne sosteneva che tutti hanno gli strumenti per affrontare ciò che accade nella quotidianità ma solo in pochi riescono perché “non riesco” significa “non voglio”, mettersi in gioco non è una cosa facile. Ma è proprio grazie al Teatro, al cinema, alla poesia che avviene un miracolo esperienziale. Quando contempliamo un’opera d’arte, assistiamo a uno spettacolo o leggiamo un romanzo, entriamo in una dimensione d’esistenza diversa. Da questa esperienza ne usciamo arricchiti. Ci specchiamo nell’altro. Scientificamente, come scrisse l’equipe del professor Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma, si attivano dei neuroni specchio che ci fanno rivivere l’esperienza alla quale assistiamo, anche se passivi. In altri termini, troviamo lo stesso concetto in letteratura. Pessoa scrive:
“Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolor
il dolore che davvero sente.”
O come non pensare a Belluca di Pirandello immaginava di vivere in posti lontani sentendo il solo fischio del treno? “Eschilo mette in scena la tragedia I Persiani, scritta dopo la battaglia di Salamina, dove la flotta persiana fu annientata dalla lega panellenica, di fronte ai suoi connazionali greci. Con l’intento di mostrare le conseguenze della guerra. Sceglie però di prendere il punto di vista del nemico. Mostrando agli ateniesi che i persiani non sono così diversi da loro. Antonine Artaud scrive che “la vita è l’imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione”. Grazie all’arte e a tutte le sue forme, abbiamo la possibilità di uscire da noi specchiandoci nell’altro, provare un’esperienza che altrimenti sarebbe difficile e integrarla con la nostra personalità.
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