Attualità

LIBERALMENTE CORRETTO – Il “supertutorismo” italiano

di Michele Gelardi -


Se chiamiamo “tutorismo” l’ideologia dominante nell’odierno panorama occidentale e ne cogliamo l’aspetto saliente nella pretesa di tutela, statalistica e coattiva, della persona, abbiamo per ciò stesso fatto un passo avanti per riconoscerne il primato italiano. Fin quando ci limitiamo a osservare la superficie dell’egemonia culturale, non possiamo che registrare il trionfo indifferenziato del “politicamente corretto” su scala mondiale, con il suo corredo di “inclusività”, “multiculturalismo”, “genderismo” et similia, al cui fondo c’è il postulato egalitaristico. Tutti i corollari del teorema dominante possono ridursi al mitico “uno è uguale a uno”, a mente del quale l’uomo è privato della sua appartenenza, della sua cultura, delle sue radici, della sua stessa identità sessuale, per divenire parte di un mondo fluido e senza confini, consacrato ufficialmente in mondovisione dalla cerimonia inaugurale dei giochi olimpici. Il cielo egalitario, che tutti accoglie ed equipara, cancellando la storia e le nazioni, sovrasta l’occidente da un punto all’altro, sotto la spinta dell’ideologia woke.
Sotto questo profilo, l’egalitarismo italiano non differisce da quello francese o americano e la pretesa di accomunare, nella massa indifferenziata e informe del gregge, tutte le pecorelle, più o meno smarrite, non ha alcuna specificità italocentrica. La prospettiva cambia, quando ci rendiamo conto che la pecorella non sta nel gregge da sé, ma solo in quanto “tutelata” dallo Stato: e allora possiamo cogliere il primato italiano. Basta fare qualche piccola riflessione e un esempio illuminante. Il tutorismo più estremo consiste nell’inibire all’uomo sotto tutela ogni movimento che non sia previamente autorizzato; ovviamente nel suo interesse, in modo che non si faccia del male da solo.
La pecorella ha “diritto alla felicità” e lo Stato deve assicurarne la realizzazione, indipendentemente dalla volontà del titolare. Ebbene, nella versione americana, questo diritto è declinato come diritto “di ricercare la felicità” mediante l’iniziativa personale. Il pragmatismo anglosassone identifica la “felicità” nell’appagamento dei bisogni, in base alla capacità reddituale, cosicché la sua ricerca in nient’altro consiste che nell’iniziativa economica personale, diretta ad assicurare i mezzi di sussistenza. S’intende che l’ostacolo illegittimo all’esercizio di questo diritto comporta l’obbligo di risarcimento del danno.
Nella declinazione italiana, sussistono infiniti “diritti a”, ma non un “diritto di” iniziativa economica. Lo Stato assicura il diritto alla salute, allo studio, al lavoro, forse domani anche alla dolce morte; insomma a tutte le variegate espressioni della “felicità” terrena. Siffatti “diritti a” consistono nella facoltà di chiedere allo Stato una determinata prestazione che possa appagare il bisogno, ma non certo nel diritto di fare.
E dunque il diritto al lavoro non è declinato come “diritto di lavoro”, ossia di intrapresa economica. Al contrario, l’iniziativa economica è subordinata a una serie infinita di autorizzazioni preventive, i cui ritardi o illegittimi impedimenti non danno luogo ad alcun risarcimento del danno. Insomma lo Stato italiano intende, o meglio proclama, di assicurarti il fine, ma ti impedisce di utilizzare il mezzo. Sotto questo profilo, il suo tutorismo è di livello superiore a quello degli altri paesi occidentali, giacché il coacervo degli impedimenti esprime la paterna, ma perfino materna, preoccupazione che il pargolo possa farsi male, camminando da solo. Alla vigilanza sono preposte la nomenklatura e la burocrazia più ingombranti dell’occidente, finanziate con la pressione fiscale più alta del mondo. Un segno evidente del primato del tutorismo nostrano, punto d’incontro tra il comunismo bolscevico e la democrazia liberale. I cittadini si sono assuefatti all’ingerenza statalistica nelle pieghe più profonde della loro vita privata, al punto che non suonò strana all’orecchio di alcuno la promessa elettorale di Prodi (nel famoso confronto televisivo con il competitor Berlusconi) di assicurare la “felicità” degli italiani. L’egemonia culturale del tutorismo risiede proprio in ciò: nella comune accettazione che la nostra “felicità” dipenda dalla politica, piuttosto che dall’iniziativa personale.


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