Attualità

IN GIUSTIZIA – Il Signor P. e quell’angoscia che nessuno pagherà mai

di Redazione -


di FRANCESCO DA RIVA GRECHI

Un po’ l’abbiamo cercato, il caso del signor P., tra le righe di un titolo che recita: “Il libro nero delle ingiuste detenzioni”.
Non era tuttavia prevedibile che la curiosità si potesse tramutare nell’angoscia tipica di un’altra celebre vittima di sistemi giudiziari ormai troppo indigesti al popolo che li sopportava: il sig. K., creato dal genio di Franz Kafka, tra il 1914 e il 1915, alla viglia di quel tramonto dell’occidente che, evidentemente, aveva anche nell’in-giustizia una delle sue ragioni.
La realtà ha oggi superato qualsiasi fantasia.


Scrive Stefano Zurlo, come da manuale: “Antonio P. si fa quasi quattro anni di carcere preventivo, fra l’’82 e l’85, poi viene condannato in primo e secondo grado, quindi la Cassazione annulla tutto e rinvia al Tribunale di Milano quella vicenda di cocaina e traffico di droga”. Il signor P., dunque, che prima di allora aveva soldi, bella moglie, figli ed ogni tipo di successo, che è stato quattro anni a girare di carcere in carcere, tra gli orrori del terrorismo e quelli della mafia, si ritrova, nel 1987, con un processo annullato ed il nulla, un nulla destinato a durare ancora a lungo.


L’oblio finisce solo nel 2020 quando, ormai affidatosi a ricerche d’archivio, scopre che il Tribunale di Milano, dopo quindici anni dalla sentenza della Cassazione del 1987, lo assolveva “in considerazione dell’affermata inutilizzabilità delle prove acquisite con rogatoria dall’autorità svizzera [non era stata rispettata nessuna regola, neanche quelle fondamentali, sulla raccolta delle dichiarazioni dei pentiti, oltretutto coimputati nello stesso processo]. Il difetto di ulteriori, seguenti e successive, acquisizioni probatorie e la pratica impossibilità di acquisirle a distanza di un ventennio dai fatti, non può che supportare quel convincimento assolutorio: nessuna prova è in atti, infatti, dell’inserimento dei prevenuti nell’asserito sodalizio: solo indizi, modesti nel complesso, non assurgenti a dignità di prova”. Così si legge nella sentenza del Tribunale di Milano del 10 giugno 2002.
Solo venti anni di processo e quattro di detenzione in-giusta. Finito? No.
“E come se non bastasse – racconta il sig. P – avevano pure sbagliato le notifiche così non ho mai saputo nulla della mia assoluzione, anche perché avevano spedito la notizia non a Salvatore Catalano, il mio legale, ma a un altro Catalano che non c’entrava niente”.


Tutto questo evidentemente non si ripara con l’eventuale indennizzo per ingiusta detenzione, né si spiega con le lacune dei codici di procedura, che pure sono in costante riforma. Occorre una riflessione di una semplicità teorica fin troppo banale e di una complessità pratica degna dell’angoscia di Kafka: chi paga per tutto questo? Non è un problema di soldi, ma di persone. Da coloro che firmano provvedimenti di carcerazione preventiva senza alcuno scrupolo, a quelli che si occupano della rogatorie e non rispettano alcuna norma, agli altri che sbagliano in maniera così grossolana delle notifiche senza alcuna coscienza. Qualcuno, in carne ed ossa, che in questa vicenda non ha adempiuto al proprio dovere sicuramente c’è, deve essere individuato e deve pagare! Sono troppi i poteri e le funzioni della Repubblica Italiani esercitati impunemente in modo da distruggere la vita ed i diritti fondamentali di giustizia dei cittadini e delle loro famiglie.


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