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Il salario minimo della sinistra, Sorcinelli: “Pauperista e contro le imprese”

di Redazione -

ROBERTO SORCINELLI PARTITO LIBERALE


di ROBERTO SORCINELLI*

Ciò che incuriosisce e al contempo è l’unico aspetto che desta un minimo interesse del dibattito sul salario minimo è la sua prospettiva: pauperista, nella visione più o meno inconsapevole dei suoi promotori. La sinistra italiana, dopo lunghi mesi di comprensibile intontimento post-elettorale, trascorsi a discutere di tematiche certo interessanti ma non prioritarie per un Paese in pieno declino, sembra finalmente aver ritrovato l’unità perduta.

Magia di una proposta sufficientemente populista per piacere ai grillocontiani sempre pronti a superar sé stessi, tendenzialmente costosa per le già disastrate casse dell’erario, discretamente aggressiva nei confronti delle odiate imprese, specialmente quelle piccole che nella illuminata visione dei proponenti esistono notoriamente per esclusiva finalità di evasione fiscale. È il cosiddetto campo largo, da Bonelli a Calenda passando per Conte e, naturalmente, la regina Elly. Come resistere alla elettrizzante prospettiva di proporsi come i paladini dei poveri e degli oppressi, il popolo dei salari bassi, anzi bassissimi? Finalmente, verrebbe da esclamare! Dopo averli sbadatamente dimenticati per almeno un decennio…

È il riscatto delle coscienze, il risveglio a destinazione da quella prima classe Milano-Foggia che trasporta i nostri eroi distratti da troppo elevati pensieri da ormai parecchie primavere. Tutto meraviglioso, è la tana del bianconiglio. Peccato però che nella realtà le cose stiano molto diversamente.

L’Italia è il Paese in cui sono bassi principalmente i salari medi, quelli della classe che un tempo si definiva media per intenderla benestante. Oggi la classe media è generalmente povera, proprio perché i salari medi sono, in realtà, piuttosto bassi. Certo, quelli bassi sono davvero bassi, ma sono solo una minima parte. E soprattutto non è aumentando i minimi che si risolve il problema: la media non si alza, se non impercettibilmente e per poco tempo. Per poco tempo perché l’impresa non terrà a lungo un lavoratore che produce meno di quello che costa. Impercettibilmente perché i salari minimi pesano assai poco sulla media e, in ogni caso, godono di maggiori agevolazioni ed esenzioni varie sul piano del carico fiscale. Agevolazioni che non conosce chi supera il lauto guadagno lordo di 35mila euro all’anno, di cui riceve in tasca meno della metà tra tasse e contributi ed il resto, poco più di mille e duecento euro al mese se ne va in affitto, bollette e spesa. Sopravvivenza, specie nelle grandi città dove tutto è più caro.

A conferma del generale impoverimento della classe media dei lavoratori italiani, i cui salari sono del resto gli unici in Europa fermi da vent’anni. E allora, qual è la soluzione? Una sola: cambiare prospettiva. Le imprese non sono condotte da avidi capitalisti in ghette e cilindro pronti a sfruttare i lavoratori per arricchirsi. Oggi il capitale umano è quello più prezioso. Ma per valere deve essere competente e specializzato.

È il mercato, baby. E funziona benissimo se non molestato dagli interventi di chi pretende di governarlo senza capirlo. Ma allora perché le imprese non investono di più in capitale umano, in formazione? Chi può lo fa, in realtà. Ma sono pochi, sono i più grandi, quelli che riescono a sopravvivere all’avidità di un fisco rapace che pretende di lucrare ben il 60% del costo del lavoro: si, sessanta euro su cento è il cuneo fiscale reale del Bengodi delle tasse. Altro che pizzo. Ed è destinato ad aumentare, se verranno adottate le brillanti soluzioni dei decreti anti povertà e salario minimo. Qualcuno alla fine il conto lo deve pagare. Indovinate chi?

*segretario nazionale del Partito Liberale Italiano


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