Attualità

IN GIUSTIZIA – Caso Toti, il ricatto mediatico della lanterna

di Francesco Da Riva Grechi -


Il caso Toti è un classico ricatto politico e mediatico ed un esempio sgradevole di uso ambiguo della giustizia. La rabbia della parte politica dell’ex Presidente della Liguria si giustifica con la brutalità della pistola alla tempia: “o ti dimetti o rimani agli arresti” ed effettivamente non è un comportamento accettabile.
Il tecnicismo giuridico del reato proprio – “sei pubblico ufficiale e fintanto che lo rimani puoi continuare a commettere il reato” – è la premessa del ricatto ed è irrazionale dal punto di vista giuridico perché sembra difficile che, con il clamore sollevato dall’inchiesta, l’ex Presidente si sarebbe avventurato nuovamente in operazioni di quelle che la Procura riteneva illecite; ammesso e non concesso che lo fossero. Non conoscendo a fondo il fascicolo, è impossibile tuttavia dare una valutazione definitiva; la critica che si vuole svolgere in questa sede è limitata alla gestione mediatica del processo cautelare, ingiusta verso un politico come Giovanni Toti. Nè si può sovvertire completamente un risultato elettorale a suffragio diretto ed universale, in una fase così importante della vita economica della Liguria.
Tanto il processo cautelare all’ex Presidente è stato sovraesposto dal punto di vista mediatico, quanto le vicende degli altri politici coinvolti sono state quasi avvolte, al contrario, da un altrettanto grave, oblioso silenzio.
Il punto è che gli elettori potrebbero aver percepito con difficoltà le concrete ragioni dell’inaudita violenza del ricatto subito da Toti da parte della Procura di Genova. Non sono mai stati resi noti neanche i dettagli che avrebbero potuto spiegare le ragioni profonde di un aut – aut che, se non sarà chiarito, rischia di pregiudicare definitivamente la poca fiducia che ancora è rimasta ai cittadini nei riguardi della magistratura.
In particolare, nulla si è mai saputo degli addebiti rivolti all’ex capo di gabinetto Matteo Cozzani e che riguardano anche imputazioni per reati contro la criminalità organizzata. L’ex sindaco di Portovenere, dimessosi dal suo incarico alla regione Liguria prima del suo ex Presidente ed al quale i domiciliari sono stati revocati il 29 giugno scorso, è accusato, dalla Procura di Genova, oltreché di corruzione, anche di voto di scambio, aggravato dall’aver agevolato la mafia. La possibilità che non si parli di nulla perché nulle v’è da dire è, in questo caso, forse ancora più grave, proprio per l’infamia delle accuse. Ma qui il discorso investe le regole, perché se
le elezioni le decide la Procura bisognerebbe almeno sapere come le decide e dunque ridiscutere l’obbligo del segreto investigativo, almeno da quando si apre il processo cautelare, che di per sé è in grado di sviluppare un clamore mediatico tale da cambiare l’esito di una consultazione elettorale per imporre un’altra di cui si è deciso l’esito nei Tribunali.
In sostanza, il legislatore dovrebbe trovare il modo di rendere trasparenti i processi giurisdizionali appena acquistano un rilievo politico e mediatico di questo livello. La trasparenza potrebbe anche aprire un varco, democratico, ad una possibilità da parte dei cittadini di valutare le responsabilità di coloro che, seppure indirettamente, di fatto scelgono chi li governa. Si deve rispondere delle proprie azioni e delle loro conseguenze e questo deve valere anche per i magistrati.


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