Cultura & Spettacolo

Il Paese dei Campanelli e il ritorno dell’operetta

di Redazione -


Musica classica: Il Paese dei Campanelli e il ritorno dell’operetta
di RICCARDO LENZI

Forse può stupire che un direttore d’orchestra d’indole mitteleuropea come Fabio Luisi, a suo agio nelle temperie mahleriane come nei limacciosi fiordi musicali delle sinfonie di Carl Nielsen, abbia dedicato la sua presenza sul podio del Festival dell’Itria, nel barocco Cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, a un’operetta. Ma poi ascolti “Il Paese dei campanelli” (in replica fino a stasera, 30 luglio) e capisci. I ritmi suadenti, i virtuosistici capricci canori dei protagonisti vocali, la strumentazione concisa e sapiente, ne fanno un’opera ancora affascinante, che strizza l’occhio ai capisaldi viennesi del genere, ma con una cantabilità tutta italiana, soprattutto pucciniana, assimilabile com’è a quel capolavoro che è “La Rondine”. Forse Alain Elkan, invece di leggere per l’ennesima volta Proust, avrebbe fatto meglio a fare una piccola deviazione da Foggia a Martina Franca.

Per quanto riguarda l’esecuzione un plauso va, oltre che ai cantanti, soprattutto all’orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari, che risponde con le appropriate nuances agli stimoli dell’esperta bacchetta. Perché non fu certo un caso se al napoletano Carlo Lombardo, insieme al veneziano Virgilio Ranzato autore delle musiche, nel 1897 la Compagnia Maresca affidò la direzione della prima esecuzione italiana di “Der Zigeunerbaron” di Johann Strauss junior, alla presenza dell’autore, che si complimentò con il giovane interprete. La capacità del Lombardo di arrangiare musiche di autori stranieri e di accostarvi nuove orecchiabili melodie si rivelò poi funzionale alle esigenze non solo della produzione e del pubblico nostrani, che spesso decretarono successo e popolarità alle sue operette, ma si volse a beneficio anche degli autori stranieri utilizzati, basti pensare alla fama che procurò a Franz Lehár, l’autore della “Vedova allegra”, grazie a brani come il “Fox trot delle gigolettes”. Autore indegno dell’oblio fu pure il suo partner musicale Virgilio Ranzato. Fra i meriti per i quali è celebrato, tra il dicembre del 1920 e l’aprile del 1921, la partecipazione a un lungo giro di concerti negli Stati Uniti e in Canada come primo violino di spalla dell’orchestra del Teatro alla Scala, sotto le guida di Arturo Toscanini; un’armonia che ovviamente non durò molto: infatti un’incomprensione con il litigiosissimo direttore portò alla rottura dei rapporti tra i due e lo spinse, per nostra fortuna, a darsi a tempo pieno alla composizione. Nel 1923 iniziò a collaborare con Carlo Lombardo, che gli fornì il libretto de “Il paese dei campanelli”. L’operetta, che originariamente si svolgeva in un immaginario paesino olandese e che il regista Alessandro Talevi stavolta ambienta in un transatlantico di lusso negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, è segnata da un susseguirsi di infedeltà coniugali, per magia segnalate dall’implacabile e imbarazzante suono dei campanelli che rende partecipe dell’evento tutta la comunità. Fu accolta trionfalmente al Lirico di Milano (23 novembre 1923) per poi passare, con altrettanto favore, al Dal Verme. Il successo della coppia Ranzato-Lombardo venne pienamente confermato da “Cin-Ci-La” (1925), un’altra storia paradossale e assurda che si svolge a Macao, dove una straripante attrice parigina e il suo eterno spasimante guariscono le timidezze amorose di un principe cinese e della sua giovane sposa. Al Festival dell’Itria con questa messa in scena non si sono voluti celebrare solo i cento anni di quest’opera, ma anche quelli dell’operetta italiana. Vi si svolgerà un convegno internazionale sul genere in questione che il 30 e 31 luglio metterà a confronto alcuni tra i maggiori esperti della materia, impegnati a dibattere sul senso dell’operetta oggi. Un problema di difficile soluzione, se si tiene conto del fatto che nei nostri tempi piuttosto crudi un difetto dell’operetta nostrana si potrebbe facilmente riscontrare nell’eccessivo sentimentalismo: e che in Italia, all’ombra della coeva e dominante opera verista, non aveva dietro di sé il sottofondo di costume parigino o viennese.


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