Cultura & Spettacolo

Il Ciaikovskij di Honeck e la rassegnazione di fronte al destino

di Redazione -

epa05320231 Austrian conductor Manfred Honeck performs with the Pittsburgh Symphony Orchestra in Hanover, Germany, 20 May 2016, during the start of the European tour. EPA/Peter Steffen


Il Ciaikovskij di Honeck e la rassegnazione di fronte al destino

di RICCARDO LENZI

Fa bella mostra di sé come cd del mese di settembre della prestigiosa rivista “Gramophone” la Quinta sinfonia di Ciaikovskij diretta da Manfred Honeck. Alla guida della sua orchestra di Pittsburgh, l’austriaco ha realizzato una serie di registrazioni da antologia, la Quarta sinfonia di Bruckner, la Quinta e la Settima di Beethoven, per non parlare della serie dedicata a Mahler, che lo pongono al vertice dell’arte direttoriale dei nostri giorni. Una bella fortuna per il pubblico italiano, perché insieme a Temirkanov, Chung, Gatti e Gergiev, Honeck fa parte di quel ristretto numero di direttori d’orchestra che tornano ogni anno – o quasi – all’Accademia di Santa Cecilia per uno o due concerti. Sessantacinquenne, austriaco, ex strumentista dei Wiener Philharmoniker, dal 2008 è direttore musicale della Pittsburgh Symphony, orchestra non molto considerata in Italia ma a lungo tra le migliori in America e ora da lui riportata in auge.

In questa Quinta sinfonia (Reference Recordings) vengono affrontati tutti i problemi che si pose l’autore, il quale nel 1888 era ritornato alla forma sinfonia dopo una pausa di dieci anni. All’apparenza l’opera è più proporzionata di quanto non fosse la Quarta sinfonia e, frutto degli studi sulla musica teutonica alimentati dall’amburghese Theodor Ave-Lallement (al quale poi dedicò la sinfonia), più complessa. Anche qui, come nella precendente, non manca il tema conduttore, esposto stavolta malinconicamente dal clarinetto a inizio del primo tempo, che poi legherà tutti i quattro movimenti della partitura e che, stando ad alcune note lasciate dallo stesso Ciaikovskij, vuole rappresentare «una completa rassegnazione di fronte al destino». Tema che poi si sviluppa in un “Allegro con anima” che drammatizza ancor più i toni, evidenziati nella registrazione dagli strumentisti dell’orchestra di Pittsburg: tutto un susseguirsi di contrabbassi dai ritmi ferocemente ritmati che paiono quasi ringhiare negli “sforzati”, accompagnati da snelli e flessuosi violini, dai morsi potenti e precisi degli ottoni e dagli avviluppanti crescendo dei timpani.

«Qui è essenziale osservare i minimi dettagli dei diversi stati d’animo e lasciare che ogni frase musicale diventi parte dell’intera storia», afferma in proposito Honeck in un’intervista su Youtube. «È necessario mettere in evidenza il sottofondo dell’introduzione al primo movimento – come Čaikovskij scrisse -, una completa rassegnazione al Fato. E la leggerezza, l’esuberanza, i dubbi e i desideri così come l’inesorabilità della parte finale, che per me rappresenta una marcia di morte verso l’abisso profondo, deve essere resa con il massimo impeto, prima che il movimento svanisca sommessamente, scomparendo nell’oscurità». Segue il memorabile “Andante cantabile”, che si apre con una romantica melodia del corno, seguito da una sezione centrale che costituisce per gli archi dell’ensemble statunitense l’occasione per sfoggiare il suono riccamente brunito, a tratti lirico e abbagliante, contrastato ancora una volta dagli accenni dell’implacabile tema del destino.

Il terzo movimento “Allegro moderato” nelle mani di Honeck raggiunge una grazia e una levità che non sempre ritroviamo in altre esecuzioni di orchestre americane o russe. La Valse ha una grazia viennese, come ci si aspetterebbe da un direttore che ha suonato la viola nella Filarmonica di Vienna. Impera ancora nel finale il tema del destino, che si sviluppa in un “Allegro vivace” sostenuto dall’orchestra a velocità inusitata e ha il suo epilogo in una lunga coda con tanto di enfatica conclusione, contrastata dal motivo d’apertura del primo movimento. Honeck ama programmare i suoi album in modo inventivo, spesso con un’opera nuova, una rarità o un pezzo arrangiato da lui stesso. Questa volta l’aggiunta insolita è costituita dai “Cinque pezzi per quartetto d’archi” di Erwin Schulhoff. Sono danzanti e grotteschi, con un arguto sapore sciostakoviano. E l’abile orchestrazione rivela una forte parentela con il mondo sonoro di Mahler e Zemlinsky.


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