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Iddu (quasi fu): Messina Denaro sta per saldare i conti con la giustizia (divina)

di Rita Cavallaro -


Iddu (quasi) fu: Matteo Messina Denaro sta per saldare una volta per tutte i suoi conti con la giustizia, quella divina, davanti alla quale a nulla servirà avvalersi della facoltà di non rispondere. Con la sua morte, però, il capo dei capi porta via con sé i terribili segreti di Cosa nostra, di quelle stragi che hanno insanguinato i primi anni Novanta, delle possibili connivenze tra politica e criminalità che, ancora oggi, alimentano il mistero sulla trattativa Stato-mafia. Iddu, così lo chiamavano senza mai fare il suo nome i fiancheggiatori che per trent’anni gli hanno garantito una latitanza dorata, era l’ultimo degli stragisti dei Corleonesi, l’erede del padrino Bernardo Provenzano prima e del boss Totò Riina poi, al quale i suoi predecessori avevano non solo affidato la guida dell’Onorata società, ma gli avevano consegnato i libri mastri, le chiavi delle cassette di sicurezza, i rapporti di potere grazie ai quali la mafia ha tenuto sotto scacco pezzi delle Istituzioni e si è garantita copertura.

Di quegli affari, Matteo Messina Denaro, non ha voluto dire una parola agli inquirenti che lo scorso 16 gennaio lo hanno interrogato subito dopo la cattura, avvenuta alla clinica La Maddalena di Palermo dove il boss si sottoponeva alle cure contro il male incurabile che non gli ha dato scampo. “Se vuoi nascondere un albero, piantalo in una foresta”, aveva detto ai magistrati, citando un proverbio ebraico, “ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua… allora mi sono messo a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta”. Iddu aveva dovuto cambiare strategia, smettere di girare il mondo giocando al gatto e al topo con la polizia, per sistemarsi in pianta stabile a Campobello di Mazara, il paesino dove tutti sapevano ma nessuno ha parlato. Lì, a vicolo San Vito, il capo mafia viveva sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede, il geometra che gli aveva fornito i documenti d’identità con i quali il latitante si faceva prescrivere i farmaci antitumorali e godeva della agevolazioni dei sistema sanitario nazionale. È grazie a quella malattia, che lo costringeva a regolari cicli di chemioterapia, che il Ros ha stretto il cerchio attorno al capo dei capi.

Il 6 settembre 2022 i carabinieri avevano assestato il primo duro colpo, arrestando tutti i suoi fedelissimi che, nelle intercettazioni, parlavano di Messina Denaro chiamandolo non più con i soprannomi “Iddu”, “U siccu”, “U signurinu”, “Diabolik” e “Testa dell’Acqua”, ma con il nuovo alias “Ignazieddu”. La certezza era arrivata quando, in una conversazione, un uomo, parlando di “Ignazieddu” aveva assicurato che il superlatitante di Cosa Nostra “è vivo e vegeto”, per smentire le voci che ormai circolavado negli ambienti mafiosi sulla possibile morte. Quella telefonata tra fedelissimi ha fornito la certezza investigativa che non solo il boss di Castelvetrano non fosse morto o fuggito all’estero, come Totò Riina aveva fatto credere in una conversazione intercettata anni fa in carcere, ma indicava che il capo mafia era ancora in quel territorio, da dove impartiva gli ordine ai suoi. Da lì, le serrate indagini del Ros hanno condotto a quella clinica di Palermo, dove Messina Denaro è stato catturato. Che non avrebbe rivelato alcun segreto era emerso fin da subito. A nulla erano valse le domande degli inquirenti, che gli avevano chiesto conto della strage di Capaci, in cui, Il 23 maggio 1992, furono fatti saltare in aria con 400 chili di tritolo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.

Stessi silenzi sull’attentato al giudice Paolo Borsellino, ucciso quasi due mesi dopo, il 19 luglio 1992, da un’autobomba piazzata sotto casa della madre, in via D’Amelio. Nessuna indicazione neppure sul depistaggio messo in atto quando qualcuno portò via dalla scena del crimine l’agenda rossa su cui Borsellino aveva appuntato i segreti della sua inchiesta contro la mafia. L’unica ammissione del capo dei capi agli inquirenti, prima di essere trasferito nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, fu stata quella di smentire con forza che fosse lui il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il 12enne figlio del collaboratore di giustizia Santino, rapito su ordine di Messina Denaro e di Brusca il 23 marzo 1993, con l’obiettivo di persuadere il genitore a non rivelare gli affari di Cosa Nostra ai magistrati. Ma dopo 799 giorni di prigionia, l’11 gennaio 1996, fu ammazzato, perché Brusca apprese dal telegiornale delle sera di essere stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Ignazio Salvo. Il piccolo Giuseppe venne strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Per il delitto furono condannati sia Brusca che Denaro, il quale, in contumacia, ha collezionato venti condanne per altrettanti delitti, tra cui le stragi di Roma, Firenze e Milano. Nel carcere dell’Aquila, dove stava ormai scontando le pene, le sue condizioni di salute sono precipitate in un coma irreversibile, di fronte al quale il mito della mafia è definitivamente caduto e l’uomo ha dovuto fare i conti con la morte.


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