Ambiente

Granchio blu, tutto da rifare: l’Europa dice no, l’Africa ringrazia

di Angelo Vitale -


Granchio blu, tutto da rifare. Questo il rischio che si profila nel nostro Paese e in Europa riguardo al contrasto di una specie aliena che da anni l’Italia ha imparato a considerare invasiva, avendone verificato la voracità nei fondali delle coste adriatiche ove fa danni a carico di mitili, uova e in generale della biodiversità marina, presente fino a 8 km dalla costa: Fedagripesca-Confcooperative ha stimato per i mesi estivi una perdita secca del 50% della produzione di vongole e cozze, con un danno di 100 milioni di euro che potrebbe arrivare al miliardo in 3 anni.

Netta e decisa, finora, l’azione messa in campo dal governo in carica per tutelare il comparto della pesca nazionale: 2,9 milioni di euro stanziati per favorirne la cattura e la commercializzazione, la premier Giorgia Meloni e il ministro Francesco Lollobrigida nelle vesti di chef in video che ne promuovono il consumo a tavola, una visione favorevole alla sperimentazione avviata un mese fa in Veneto utilizzando il granchio blu pescato, macinato e pastorizzato per produrre biogas, ottenendo da una tonnellata fino a 200 kw ora di elettricità.

Tutto questo è a rischio. Perché in Europa un Comitato che sovrintende alla lotta alle specie invasive potrebbe inserire il granchio blu nella sua lista nel corso del suo aggiornamento, da definire probabilmente entro il 2024. A quel punto la scena cambierebbe: ne sarebbe vietata la cattura, ne sarebbe impedita la vendita, gli Stati membri dovrebbero prepararsi ad un rinnovato programma di contrasto. Tutto vano risulterebbe ciò che è stato realizzato in quest’estate. Tutte perdute le azioni che sembravano prefigurare una stagione di tranquillità per il comparto della pesca nazionale, almeno e parzialmente per gli effetti di recupero verificati proprio su questa problematica dopo l’autorizzazione alla cattura, alla commercializzazione e all’export del granchio.

Tutto da rifare anche altrove in Europa, come in Spagna ove la pratica della pesca del granchio blu, nel delta del’Ebro, ha messo in moto meccanismi virtuosi di mercato attraverso un programma integrato che tutela la pesca e tiene conto degli equilibri di limitazione della specie sui fondali.

Il pericolo è evidente. E si accompagna a una minaccia e a un paradosso. La prima, concretizzate nel deferimento alla Corte di Giustizia che già da gennaio pesa sul nostro Paese e su altri 5 Stati membri, Bulgaria, Grecia, Irlanda, Lettonia e Portogallo, divenuti obiettivo della Commissione europea proprio sul versante del contrasto alle specie invasive, dopo lettere di costituzione in mora del giugno 2021 e pareri motivati trasmessi nel febbraio 2022. Prima del governo Meloni, non si era adempiuto a quanto chiesto dall’Europa, nessuno aveva affrontato interamente le carenze segnalate negli anni precedenti.

La quale, peraltro, in questo scenario di contrasto alle specie invasive fatto di programmi e aggiornamenti degli elenchi, gira la faccia dall’altra parte nel Mediterraneo: questo il paradosso. Mare ove la Tunisia, con un programma definito sostenibile dal Wwf, ha fatto del granchio blu il gioiello della sua blue economy attraverso sistemi che privilegiano le nasse piuttosto che le reti, meno durevoli e più invasive. Granchio blu che rappresenta una quota del 25% delle esportazioni di pesce del Paese, nel 2021 7.600 tonnellate per 24 milioni di dollari. Il “cliente” principale di questo export, il mercato asiatico. Ma, oltre che in Usa e Spagna, il granchio blu “tunisino” arriva pure da noi.


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