Se gli Usa piangono, la Cina non ha proprio nulla di che sorridere. Le guerre, in fondo, fanno male a tutti. Anche, o forse soprattutto, quelle economiche. Mentre Washington è alle prese con l’inflazione che sta strangolando il potere d’acquisto degli americani, inducendo la Fed a innalzare i tassi di interesse fino a strangolare, a sua volta, le imprese e le famiglie che hanno avuto il torto di chiedere un prestito, Pechino è alle prese con un (grosso) problema di deflazione e con la sfiducia rovinosa dei mercati. Il Financial Times ha fatto i conti alla Borsa di Hong Kong. E ha scoperto che gli investitori, specialmente quelli stranieri, stanno voltando le spalle alla Cina. Si acquistano meno obbligazioni di Stato, eppure il Dragone è una Superpotenza economica. Ma il problema sarebbe da ricercare, secondo l’analisi del quotidiano finanziario, nelle promesse fatte da Xi e dal governo cinese a sostegno della ripresa economica asiatica che si sarebbero infrante contro la realtà, deludendo le aspettative del mercato.
I numeri snocciolati dal Ft parlano chiaro: gli investitori iniziano a disimpegnarsi dai bond cinesi, scesi a 3,24 trilioni di Renminbi e facendo segnare un tracollo, da luglio, pari a ben 37 miliardi di Rmb. La lettura va accompagnata da un altro dato: quasi completamente invertito 54 miliardi di renminbi (7,4 miliardi di dollari) negli acquisti netti di azioni cinesi. Come se non bastasse, ieri, è stata aperta una nuova indagine su una delle più importanti filiali del colosso dai piedi d’argilla per eccellenza del sistema economico e finanziario cinese: Evergrande. Si tratta dell’Hengda Real Estate, su cui pende l’accusa di una sospetta violazione sulla trasparenza e la diffusione delle informazioni. Il fatto che la grande finanza, specialmente quella vicina all’Occidente, stia facendo un passo indietro denota che lo scontro sta entrando in una fase acuta. Intanto, la Banca centrale cinese ha provveduto all’ennesima iniezione di liquidità nel sistema da 168 miliardi di yuan, pari a circa 23,3 miliardi di dollari portando i tassi di interessi a sette giorni all’1,8%.
Usa contro Cina. Ma l’America ha poco da sorridere dai guai cinesi. Nei verbali dell’ultima riunione della Fed, tenutasi a luglio, gli economisti Usa scrivevano che “la possibilità che l’inasprimento cumulativo della politica monetaria potrebbe portare a un rallentamento più marcato l’economia del previsto, così come la possibilità che gli effetti dell’inasprimento delle condizioni del credito bancario potrebbe rivelarsi più consistente del previsto”. Insomma, si stanno rendendo conto di aver stretto troppo la corda al collo dell’economia statunitense. Ma ormai da qui, ossia dalla spirale del rigore, non si esce: “Con l’inflazione ancora ben al di sopra dell’obiettivo di lungo periodo del Comitato e il mercato del lavoro che rimane teso, la maggior parte dei partecipanti ha continuato a vedere significativi rischi al rialzo per l’inflazione, che potrebbe richiedere un ulteriore inasprimento della politica monetaria”. Ed è un segnale che suona sinistro anche per l’Europa. Se la Fed ha scelto di combattere l’inflazione a ogni costo, state pur certi che la Bce la seguirà fino alla fine. E oltre. Ma adesso arrivano dati inquietanti che colpiscono le economie di quei Paesi, con in testa Germania e Olanda, che avevano fatto del rigore l’unica scelta possibile. L’Ue è vicina al baratro al punto che Lagarde, qualche settimana fa, ha aperto alla possibilità di lasciare i tassi alti senza per molto tempo. Così come le aveva già suggerito il futuro governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta.
Insomma, né gli Usa né la Cina stanno attraversando un periodo di grandissima forma dal punto di vista economico. E proprio mentre tutti stanno godendosi gli ultimi scampoli di vacanza, le (vere) guerre che muovono il mondo non si sono fermate neanche per un istante.