Giustizia per Attanasio
Si apre uno spiraglio per la verità sul caso di Luca Attanasio. Dopo i silenzi della Farnesina, che sembrava scettica sul da farsi, Palazzo Chigi pare pronto a costituirsi parte civile nel processo italiano. Un nuovo filone, che segue le condanne all’ergastolo in Congo dei sei membri del commando che, il 22 febbraio 2021, assassinarono l’ambasciatore nel corso di un’imboscata nella provincia di Kivu Nord. Nell’assalto al convoglio del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) furono uccisi, oltre al diplomatico italiano, anche il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. La vicenda giudiziaria sul fronte congolese si è conclusa lo scorso aprile, quando il tribunale militare di La Gombe ha condannato al carcere a vita Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu (alias Ombeni Samuel) e Marco Shimiyimana Prince, i sei componenti del commando dedito alle rapine di strada e che, in quel terribile giorno, decise di rapire l’ambasciatore a scopo di riscatto. L’operazione criminale si risolse in tre omicidi. E se nel processo di Kinshasa l’Italia si era costituita parte civile, tanto da vedersi riconosciuto un risarcimento di due milioni di dollari in via equitativa per la perdita dei servitori dello Stato, lo stesso non ha ancora fatto per il filone italiano, che prenderà il via il prossimo 25 maggio davanti al gup di Roma e che vede imputati per omicidio colposo Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, i due organizzatori della missione del nord del Paese africano, durante la quale furono uccisi Attanasio e Iacovacci. Nel decreto di fissazione dell’udienza sono state individuate come parti offese i familiari delle due vittime e la Presidenza del Consiglio. Eppure, nonostante il papà dell’ambasciatore italiano chieda chiarezza da tempo, il governo non ha ancora ufficializzato la decisione di costituirsi parte civile nel dibattimento. La scadenza dei termini per la costituzione è proprio il 25 maggio, quando le parti dovranno presentare le istanze in udienza. Fino a due giorni fa la Farnesina sembrava propensa a non formalizzare la richiesta, ma uno spiraglio arriva ora dalla Difesa per il superamento di un’impasse di difficile comprensione per le famiglie dei due servitori dello Stato. In queste ore, forse già oggi, potrebbe essere il ministro Guido Crosetto a mettere fine all’incresciosa vicenda, nel corso del raduno degli Alpini a Udine, dove è prevista la presenza anche di Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore italiano ucciso in Congo, il quale continua a chiedere giustizia. D’altronde era stato lui, subito dopo la sentenza di Kinshasa, a sollevare dubbi sulla ricostruzione diventata verità processuale con la pronuncia della sentenza di condanna all’ergastolo per i sei congolesi, ritenuti colpevoli di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra. Salvatore Attanasio, infatti, non ha mai creduto all’idea di un tentativo di rapimento a scopo di riscatto finito nel sangue, facendo intendere che l’imboscata avesse un movente differente e probabilmente mandanti occulti. Motivo per il quale il genitore dell’ambasciatore confida nel filone dibattimentale italiano, nel quale il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiunto Sergio Colaiocco esporranno l’impianto accusatorio per dimostrare che i due dipendenti del World Food Program sarebbero responsabili dell’omicidio colposo del diplomatico e del carabiniere. Secondo l’accusa, i due impiegati Onu avrebbero omesso e falsificato procedure necessarie a proteggere l’ambasciatore in un’area del Congo notoriamente pericolosa, nel mirino delle bande di rapinatori. E nell’organizzare la missione che avrebbe dovuto portare Attanasio da Goma a Rusthuru per un’ispezione a un progetto Pam finanziato dall’Italia, gli imputati avrebbero “attestato il falso” e “omesso per negligenza ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti e di informare cinque giorni prima del viaggio la missione di pace Monusco, preposta alla sicurezza e alla predisposizione di scorta armata e veicoli corazzati”, si legge nelle carte dell’inchiesta. Leone e Rwagaza, per i magistrati, avrebbero presentato la richiesta di autorizzazione solo 12 ore prima della partenza, anziché 72 come prevede il protocollo. Inoltre, per ottenere il permesso che in così breve tempo può essere rilasciato solo a personale Pam, avrebbero falsamente indicato i nomi di due dipendenti al posto di quelli di Attanasio e Iacovacci. E ancora, la condotta più grave: non avrebbero informato cinque giorni prima la forza di pace Monusco, che si occupa di predispone una scorta armata e veicoli blindati nelle zone a rischio. Così Attanasio e Iacovacci hanno attraversato l’inferno congolese su normali auto, senza protezione. E sono stati uccisi. Per l’accusa, dunque, i due funzionari, con la loro condotta illegale, avrebbero creato le condizioni che, infine, hanno portato il commando a causare la morte dei servitori dello Stato. Nonostante tutto, la verità potrebbe non arrivare mai, visto che Leone e Rwagaza, in qualità di dipendenti delle Nazioni Unite, godono dell’immunità diplomatica.
Torna alle notizie in home