Giuseppe Biagi, ritratto d’Artista: rivivere la Metacosa all’epoca del Metaverso
Dopo circa quarant’anni dalla storica mostra a Palazzo Paolina di Viareggio, i sette pittori della “Metacosa”, – Giuseppe Bartolini, Giuseppe Biagi, Gianfranco Ferroni, Bernardino Luino, Sandro Luporini (pittore e storico paroliere di Giorgio Gaber), Lino Mannocci e Giorgio Tonelli- sono stati ospitati nello stesso Comune, in collaborazione con l’Adac di Modena, per ripresentare alla GAMC, la Galleria Comunale di Arte Contemporanea, la collettiva intitolata, “I pittori della Metacosa”.
L’esposizione, inaugurata a giugno, si protrarrà fino al 13 ottobre. Curata da Adriano Primo Baldi e azzimatata dal saggio critico di Luca Pietro Nicoletti. Il gruppo che oggi ci permette di curiosare dentro le pieghe della loro arte, si è finito di comporre nel 1983, con l’ingresso del visionario Giuseppe Biagi, quando questa eterogenea compagine si presenta, per la prima volta, con il nome di Metacosa. In realtà questi artisti poco avevano in comune, se non l’intenzione di immergersi nella pittura figurativa del tempo con un preciso scopo: scoprire l’essenza intima che trasuda da qualsiasi oggetto. Il titolo stesso, come suggerisce la sua radice, aveva lo sguardo rivolto verso quell’arte “Metafisica”, inaugurata da Giorgio De Chirico e Carlo Carrà. La ricerca dechironiana, alla fine, era un tentativo di far ritorno al porto della bella pittura. L’ennesimo originale sostegno italiano allo scenario delle avanguardie europee, dopo il Futurismo. E se quest’ultimo movimento era fatto di chiasso e rumore, nella Metafisica si udiva un silenzio quasi abulico. Anche in questi artisti riscontriamo il tentativo di mostrare il traballamento del reale rivelando cosa esista davvero al di là delle apparenze. Cosa sia la cosità della cosa, la sua vera essenza.
Vogliamo fermare il nostro treno presso la stazione pittorica e surreale di Biagi che, cortesemente, ci ha preso la mano, come un vero Virgilio, per condurci nella selva oscura del genio artistico che, spesso, lascia noi spettatori, smarriti. In una visione d’ insieme, immergendosi nell’arte di Biagi, si nota immediatamente la sua personale capacità di usare il pennello con una maestria ed una minuziosità che soltanto i grandi artisti sono capaci di regalarci. Dietro ogni suo quadro si avverte una spasmodica ricerca che deve sfociare nel colore giusto, nella tecnica più idonea. Una sorta di continuo esperimento che insegue un’insoddisfazione artistica di fondo, un’esigenza esponenziale di pretendere sempre di più dalla sua arte. Come se qualsiasi opera, seppur ammirata da un certo tipo di critica, non fosse mai abbastanza. Questo avviene perché in Biagi non esiste un traguardo e tutto il suo talento profuma di continue trasformazioni che possiamo carpire nei numerosi mutamenti a cui la sua poetica è stata sottoposta nell’arco degli anni. La sua è un’indagine poliedrica seppur sempre meditata. Non dà mai la sensazione di un flusso esplosivo e irrazionale. Come alcuni pittori della Metacosa, le sue sue tele sono animate da oggetti comuni, usuali, quasi indegni di essere al centro della scena, posti sempre in spazi interni, stanze anguste, dove la prospettiva classica viene sostituita da una prospettiva vertiginosa e dove la presenza umana lascia indizi di un suo precedente passaggio o di un suo imminente arrivo, non apparendo quasi mai esplicitamente. Uno sguardo ed un orecchio attenti potrebbero persino percepire il rumore dei passi che hanno calpestato quei pavimenti ombreggiati o vedere le scene che hanno animato quegli ambienti ormai abbandonati alla loro solitudine. Ma ciò che non appare “c’è “in un modo o nell’altro, in uno spazio temporale che sembra essersi temporaneamente fermato, in un “c’è stato” che ha lasciato le sue tracce o in un “ci sarà” attendendo che ne lasci. E quanto più le scene si scarnificano, lasciando soltanto quei pochi oggetti, tanto più lo spazio si riempie della presenza umana e chi osserva viene raggiunto da un senso di sofferenza e desolazione.
Di fronte ai drappeggi, alle pieghe dei tessuti aptici che spesso coprono tavoli, sedie, o vengono abbandonati su un cavalletto, ci sentiamo quasi come bambini che vedono per la prima volta, con lo stupore che ne può conseguire. Non guardiamo distrattamente, ci sentiamo quasi obbligati ad osservare, ad avvicinarsi meglio per scoprire quel segreto che la rappresentazione ci sta per svelare, per sussurrare. Per comprendere meglio dobbiamo porci a fianco del dipinto e non cercare di immergersi all’ interno dell’opera. Un metodo di approcciarsi tutt’altro che facile.
Illustrare tutte le opere di Biagi appese ai chiodi in questa collettiva, oltre ad essere impresa ardua, toglierebbe quella sana curiosità che deve spingere l’amatore a rapportarsi personalmente con ogni creazione. In fin dei conti, ciò che rende tale mia creazione artistica è proprio il sodalizio inscindibile tra chi crea e chi osserva. Dopo questo breve viaggio all’interno della Metacosa ne usciamo con una visione che ha subìto, quasi obbligatoriamente, una metamorfosi. Una visione meno superficiale e più contemplativa. Ci sentiamo come incoraggiati ad oltrepassare il confine del mondo fisico per comprendere quell’aspetto invisibilmente reale che è eclissato dalla cosa stessa. Insomma, quell’oltre che non ha saputo frenare neppure la curiosità dell’ “Alice nel paese delle meraviglie”, di Lewis Carrol, fino a spingerla nella misteriosa tana del Bianconiglio.
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