Attualità

Gioia Tauro scalo di armi da guerra per il filorusso Haftar: pressing Usa sull’Italia

di Angelo Vitale -

Meloni con Haftar a Bengasi


Armi da guerra nel porto di Gioia Tauro, provenienti dalla Cina e dirette al porto di Bengasi in Libia controllato da Haftar. La Guardia di finanza di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Agenzia Dogane e Monopoli, ha sequestrato pochi giorni fa nello scalo calabrese un significativo carico di componenti per l’assemblaggio di droni per uso bellico che erano custodite in sei container. Destinazione, la Cirenaica governata dal maresciallo ribelle e filo-russo Khalifa Haftar, due mesi fa incontrato sul posto dalla premier Giorgia Meloni. Droni, quelli che i libici avrebbero montato, non leggeri: mascherate sotto pale eoliche che puntavano ad ingannare i radar che hanno condotto al sequestro, c’erano componenti utili all’assemblaggio di apparecchiature di almeno tre tonnellate, veri e propri aerei da guerra.

Non solo i radar hanno guidato il sequestro, coordinato dalla Procura della Repubblica di Palmi, diretta da Emanuele Crescenti, che indaga come in occasione dell’analogo episodio di dieci giorni prima, per traffico internazionale di armi con l’aggravante rappresentata dal Paese di destinazione, la Libia, soggetto ad embargo in base alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e ai Regolamenti nazionali e comunitari. Perché la segnalazione è pervenuta alle autorità italiane da quelle statunitensi, che hanno deciso per la seconda volta che l’intervento fosse operato sul territorio italiano. Dieci giorni prima, attuando lo stesso tipo di monitoraggio, gli Usa avevano guidato l’Italia ad un carico simile partito dalla Cina e che aveva toccato altri Paesi del Mediterraneo prima di arrivare a Gioia Tauro.

Anche allora, la destinazione finale sarebbe stata Bengasi. Gli Stati Uniti hanno raggiunto la certezza che Haftar favorisca una manovra del Cremlino nell’area. La Russia punterebbe a realizzare un proprio porto militare a Tobruk da cui coordinare la presenza militare in Sudan, Mali, Niger, Ciad, Repubblica sudafricana. Diventerebbe la base militare russa più vicina al quartier generale della Sesta flotta statunitense a Napoli, a ridosso del fianco Sud dell’Ue e della Nato.

Con questo secondo sequestro, l’Italia diventa protagonista di primo piano in una vicenda che probabilmente la premier Meloni avrebbe voluto rimanesse incanalata nei rapporti fin qui intrapresi nell’area, recentemente con lo stesso Haftar. All’uomo forte di Vladimir Putin nel Nord Africa ove molto si è trasformato negli ultimi anni – dopo il declino del Gruppo Wagner, sono poco meno di 2mila i miliziani degli Africa Corps russi che operano sul posto – Meloni aveva chiesto il 7 maggio di allentare il rapporto con la Russia, auspicio difficilmente realizzabile. Neanche forse l’offerta da parte dell’Italia di contribuire alla ricostruzione della zona di Derna distrutta l’anno scorso dall’inondazione può servire ad un ammorbidimento della posizione di Haftar, peraltro suscettibile pure di poter condizionare i flussi di migranti dalla Cirenaica destinati in Italia e il transito nell’area dei pescherecci italiani.

Assente sulla questione, come in altre situazioni, una manovra unitaria Ue. Con l’Italia stretta tra il pressing preoccupato del governo Usa e il proposito di andare per la propria strada, guardando anche alle proprie esigenze: anche il 7 maggio Meloni, in scia con le linee del Piano Mattei, Meloni aveva ribadito che in Africa “bisogna parlare con tutti”.




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